Con l’espressione hate speech si fa riferimento a tutte quelle parole o affermazioni di contenuto violento o discriminatorio nei confronti di persone o idee, relativamente a posizioni razziali, religiose, orientamento sessuale e culturale. La tendenza dell’essere umano ad usare parole insultanti è lampante sia nelle parole che pronunciamo ogni giorno, sia nei dibattiti riguardanti fatti politici e di cronaca. L’avvento dei social network ha esasperato tale aspetto del linguaggio tanto che l’insulto è divenuto un fatto di cronaca a sé stante.
Possiamo leggere, infatti, articoli interamente dedicati alle dichiarazioni con le quali un politico insulta un altro politico o della valanga di insulti che travolge un personaggio famoso per una sua foto o un commento, tanto che è stato coniato un nuovo termine per descrivere questo fenomeno, ossia la shitstorm, letteralmente “tempesta di merda“.
Tra le notizie del momento vi sono la shitstorm rivolta alla famosa fotografa Letizia Battaglia; le polemiche inerenti il programma “Detto Fatto” che ha mandato in onda un tutorial su come fare la spesa sexy; o ancora le parole offensive di Vittorio Feltri in occasione del commento al caso di stupro “Genovese”; e non manca mai Sgarbi che definisce capra capra capra praticamente tutti.
Insomma, ogni testata giornalistica ha, nel suo editoriale giornaliero, almeno un articolo con oggetto l’insulto.
Da tempo, infatti, si discute della necessità che i proprietari dei vari social individuino un sistema efficace per rintracciare gli insulti e, possibilmente, eliminarli. Tuttavia, l’analisi del linguaggio corrente offre anche un valido ausilio all’interpretazione della società contemporanea e ci dà i mezzi per prendere contezza dei pregiudizi ad essa sottesi.
Wittgenstein ci disse che “i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo“, sottolineando come le parole che usiamo definiscono chi siamo e la visione del mondo che custodiamo, sulla base della quale prendiamo decisioni e decifriamo i fatti della vita.
Allora cosa dice di noi la tendenza al linguaggio dell’odio?
L’odio contro le donne e la parità di genere
L’analisi dell’insulto, alla luce dell’insegnamento di Wittgenstein, offre una chiave di lettura della cultura del nostro Paese. Infatti, innumerevoli sono le espressioni utilizzate, sui social e nella vita, che svelano i nostri arcani pregiudizi, anche quando diciamo coscientemente a noi stessi di non avere quel tipo di pregiudizio.
Ciò è tanto più evidente quando si tratta di parità di genere. Se pensiamo agli insulti rivolti alle donne, ci rendiamo subito conto che questi, in larga misura, sono relativi alla sfera sessuale, manifestando la resistenza a considerare la donna come un soggetto sessualmente libero. Avverso le donne, per esempio, vengono scagliate ingiurie come “puttana“, “succhiacazzi“, “vacca“. In questi casi l’obiettivo che si intende raggiungere è il disconoscimento della sua libertà e la mortificazione della sua credibilità sociale.
Ciò che appare è l’incapacità della comunità di pensare alle donne come ad un soggetto slegato da forme di soggezione legate al sesso. Non di rado, infatti, le donne socialmente e politicamente impegnate vengono denigrate non in base alla qualità del proprio impegno, ma per il fatto stesso di essersi fatte portavoce di un’esigenza di una categoria.
È il caso dei feroci attacco di odio nei confronti dell’attivista per l’ambiente Greta Thunberg, colpevole di aver avviato una campagna per sollecitare l’impegno politico alla risoluzione della crisi climatica, alla quale sono state rivolte minacce di stupro. Perfino il suo nome è stato deformato in Gretina, con l’intento di ridimensionare il peso del suo messaggio. Eppure, stiamo parlando di una minore che si batte per la tutela di un bene che riguarda tutti e la cui battagli avvantaggia tutti.
Stesso trattamento è stato riservato a Silvia Romano, alla quale non sono stati risparmiati auguri di stupro e torture durante la sua prigionia perché “se l’è andata a cercare”. In questo senso i commenti rivolti alle donne sono rivelatori del reale pensiero sotteso alla parità di genere, che a quanto pare esiste sulla carta ma non nella mentalità della collettività.
Il fenomeno dell’odio online ha indotto Amnesty International a indagare sulle sue dinamiche intrinseche circa il tipo di messaggi discriminatori pronunciati, i destinatari, la fascia d’età più propensa ad usare un linguaggio discriminatorio e le aree geografiche interessate da tali eventi.
Una prima analisi, realizzata nel corso delle prime due edizioni di Barometro dell’odio, ha riportato che i messaggi più ingiurianti e svilenti sono rivolti alle donne, tanto da indurre Amnesty International ad effettuare una seconda indagine, Sessismo da tastiera, concentrandosi esclusivamente sulle discriminazioni di genere che avvengono sul web.
Sebbene la ricerca sia stata effettuata solo sul campo delle comunicazioni social, sarebbe un errore credere che quegli stessi risultati non possano valere anche nel linguaggio della vita reale.
In 5 settimane di monitoraggio dei social sono stati analizzati 42.143 commenti, dei quali il 14% è offensivo, discriminatorio e di hate speech (più di 1 su 10); di questi il 33% è rivolto alle donne, è personale e a contenuto sessuale. Su Twitter, in particolare, le donne conquistano il podio della categoria più odiata: su 268.433 tweet, ben 101.796 sono rivolti alle donne, dei quali 70.449 sono dispregiativi. Il che significa che, su Twitter, quasi una persona su due sceglie le donne come categoria di cui parlare e il 70% lo fa con intenti di odio.
La ricerca è stata pubblicata solo pochi giorni dopo la giornata contro la violenza sulle donne e ha rilevato come, proprio in quel giorno, sia stato raggiunto un picco dei messaggi di odio contro le donne. Ciò che il pubblico sembra non digerire è che esista una giornata dedicata ad uno specifico tipo di violenza, poiché la violenza deve essere considerata nel suo complesso.
Ciò che sfugge è che la giornata contro la violenza sulle donne nasce dal bisogno di sensibilizzare su una tipologia di violenza che, fino a non poco tempo fa, era ritenuta più che legittima.
In nessun momento si è inteso togliere valore ad altri tipi di violenze ma, anzi, si cerca di contrastarle attraverso una compiuta analisi del particolare per giungere al generale. Tale opera di sensibilizzazione è tanto importante sia per chi la violenza la pratica, sia per evitare che venga praticata. Così, nel tentativo di negare l’esistenza della necessità di dedicare una giornata al problema della violenza sulle donne, vengono scagliate, avverso le stesse donne, offese quali “finte femministe ipocrite”, “lesbiche isteriche”, “ninfomani”.
Tutto ciò non è un’ulteriore conferma che viviamo in un sistema culturale ostile alla parità di genere?
Tale critica vale sia per gli uomini che per le donne, dal momento che quest’ultime, nel tentativo di distruggere gli stereotipi di genere, finiscono per insultare altre donne dimostrando chiaramente che la polarizzazione che alcuni temi assumono nello spazio virtuale prevale sulla riflessione e sulla comprensione dei veri obiettivi dell’emancipazione. Questo è quanto è avvenuto nel caso del tutorial sulla spesa sexy, a seguito del quale alcune donne, nello sforzo di abbattere una visione della donna stereotipata, hanno insultato senza attenuanti la protagonista del tutorial e, indirettamente, hanno sostenuto l’assenza di libertà della donna di indossare i tacchi durante la spesa, qualora le andasse di farlo.
Ciò non è altro che la manifestazione ultima di come fatichiamo ad astenerci dal giudicare ogni singolo frammento della vita delle donne, poiché i loro comportamenti sono puntualmente sotto i riflettori. In altre parole, la cultura sessista impressa nelle parole coinvolge anche chi – uomini e donne – razionalmente crede di difendere diritti di libertà e giustizia.
Il “bello” del sessismo è che non ha bisogno di dare le generalità per essere identificato: esso si mostra da sé, talvolta anche solo preferendo le donne come obiettivo del proprio giudizio e accanimento.
Nell’indagine espletata da Amnesty è stato evidenziato, infatti, che tra i soggetti monitorati di entrambi i sessi, a parità di condizioni, le donne ricevono più insulti: ben il 49% dei commenti sessisti è rivolto alle donne come gruppo nel suo complesso e spazia dai giudizi su aspetto e abbigliamento, per i quali la donna è “cesso“, “befana”, “fatta di plastica”, “eccessivamente provocante”, a quelli inerenti il suo comportamento, per cui la donna è “isterica”, “oca”, “gallina”, “scimmia” – il paragone con gli animali è un chiaro intento di deumanizzare il soggetto dei commenti.
Talvolta, la discriminazione di genere si sovrappone all’avversione per etnie minoritarie cosicché se si è donna, di colore ed immigrata, non viene risparmiata alcuna combinazione di ingiurie. Se si è donna, di colore, immigrata e lesbica, poi, il repertorio di parole d’odio può essere sfoderato al completo.
E gli uomini non vengono forse insultati? Certo, ma con qualche differenza rispetto alla frequenza con cui ciò avviene e in relazione al contenuto dell’offesa. Atteso che la ricorrenza dei messaggi di odio è inferiore, l’uomo viene insultato con epiteti quali “imbecille”, “pirla”, “coglione” e affini, che afferiscono all’intelligenza più che alla persona in quanto essere sessuato maschile. Perfino quando viene definito “figlio di puttana” o “cornuto”, il soggetto ultimo dell’offesa è rappresentato dalla donna. Nello specifico, con tali espressioni, si mira a colpire l’uomo in riferimento alle donne che si presume dovrebbe controllare affinché non gettino su di lui discredito pubblico.
In conclusione, in un’ottica generale della predisposizione all’odio, i linguisti hanno constatato che una lingua è tanto più carica di termini insultanti tanto più la sua comunità parlante è propensa all’aggressività. Vi sono, infatti, della culture, come quella giapponese, molto devote al rispetto dell’altro e che di riflesso presentano poche espressioni diffamatorie nella loro lingua. L’italiano, al contrario, offre un’ampia scelta di termini ingiuriosi, a conferma del fatto che siamo un popolo poco propenso all’ascolto dell’altro, con conseguente poco rispetto delle opinioni e scelte altrui, e tanta saccenteria e presunzione.
Probabilmente la proliferazione dei messaggi di odio nella nostra società deriva dal fatto che ci sentiamo sempre più attaccati e sempre più “in guerra” con l’altro. Siamo giunti a considerare la libertà di opzione altrui come un’aggressione a noi e alle nostre idee, tanto da dover subito rispondere con l’arma che ci è concessa da dietro lo schermo del nostro telefono: la parola offensiva.
O forse questo deriva anche dall’inabilità di esternare le nostre idee compitamente, in modo più articolato e pensato?
I deficit di un’istruzione linguistica hanno la terribile conseguenza di impedire alle persone di argomentare le proprie convinzioni, riducendole all’utilizzo limitativo del termine ingiurioso come unico mezzo per prevalere. Un vocabolario poco fornito può comportare l’incapacità di esprimere un concetto e, di fatto, di comprendere un segmento delle relazioni tra esseri umani.
L’odio riversato nelle dinamiche della parità di genere è solo un tassello della deriva infamante intrapresa nella gestione delle relazioni interpersonali. Prestare attenzione alle parole può essere un valido modo per comprenderci e anche per costruire una società protesa all’inclusione.
Come disse il più celebre sostenitore della comunicazione non violenta, il dott. M.B. Rosengberg: “Le parole sono finestre (oppure muri)“.
Incrociamo le dita affinché siano le prime.
Avvocato, classe 1990, nasce nella provincia cosentina.
Da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle donne in ambito famigliare, è curiosa e dall’animo gentile ed equilibrato grazie alla sua passione per lo yoga, ma è anche incredibilmente impulsiva quando sa che c’è un’avventura ad attenderla.
Da ambientalista, ama e difende fermamente la natura e sogna di correre una maratona.
Appassionata di politica, viaggi, sociologia e yoga.