"Da bambino, mio figlio era - com'è che si dice? - buono come il pane. Una pulce scapigliata con gli occhi vispi e le ginocchia livide. Il viso e i capelli neri, arruffati sulla testa, li aveva ereditati da suo padre; mentre il guizzo e il genio, beh, quelli erano roba mia."

Era tutto un clamore compatto, Penteo che gemeva finché gli rimase il respiro, e quelle che elevavano il grido di vittoria. […] Giace sparso il suo corpo, parte sotto le rocce, altra parte nella macchia fitta del bosco: ricerca non facile. La testa sventurata è toccata alla madre di prenderla nelle sue mani: l’ha conficcata sulla punta del tirso […].

(Le baccanti, Euripide)

I.

L’infelice

La prima volta che feci a pezzi mio figlio avrò avuto sì e no trent’anni.

Ai tempi, Giulio non era Giulio. O meglio: lo era, ma non sapeva di esserlo.

Da bambino, mio figlio, Giulio appunto, era – com’è che si dice? – “buono come il pane”. Una pulce scapigliata con gli occhi vispi e le ginocchia livide.

Il viso e i capelli neri, arruffati sulla testa, li aveva ereditati da suo padre; mentre il guizzo e il genio, beh, quelli erano roba mia.

Li aveva poppati dal mio seno; finché, a furia di suzioni, mi si spaccarono in ragadi i capezzoli.

Mio figlio era perfetto – lo dico sul serio: in giro, non ce n’erano di migliori.

Tra tutti i bambini che avessi incontrato, Giulio era di gran lunga il più intelligente, il più vivace, il più sensibile; eppure non tolleravo… io non sopportavo affatto quel suo piccolo neo.

Mi spiego meglio: quando Giulio s’agitava, e – bontà sua – ai tempi, gli capitava spesso, le parole gli s’ingolfavano in gola; e, arrampicandosi, incerte, su su per le corde vocali, gli balzavano dalla bocca in singulti insopportabili.

A una recita di Natale, credo in seconda elementare, la maestra d’italiano gli chiese di declamare una poesiola in rima baciata scritta di suo pugno.

A dire il vero, la poesia non era un granché, ma ne andava così fiero.

Un pomeriggio, me la sventolò sotto al naso, scritta in bella su un foglio a righe.

«Guarda, mamma, la maestra mi ha dato 10.» chiosò con un tono furbetto, che acquisì allora e che, negli anni, gl’è rimasto attaccato addosso.

Non dissi una parola, impietrita e imbambolata davanti a quella sua felicità da poco.

Marco – il comunista, suo padre, l’uomo che, allora, era mio marito – incalzò una mia reazione, prima con uno sguardo, poi con un Sara, visto che bravo il nostro Giulietto?

Quando capì che non avrebbe cavato un ragno dal buco, si caricò Giulio su una spalla, che, con un gridolino, sparì tra le braccia forti di suo padre oltre la porta a vetri della cucina.

Guardai sfumare fino al nulla le loro silhouettes, due contorni incerti sul vetro opaco.

Nei giorni successivi, prima dello stillicidio, feci esercitare il mio bambino.

A furia di ripetere e ripetere a voce alta la sua poesia, i balbettii di Giulio si affievolirono, a tal punto che, con mia grande sorpresa, scomparvero del tutto.

Il 21 dicembre di un anno imprecisato eccolo lì, mio figlio, su un palchetto sporco, volgare e pacchiano, sfavillante in lustrini di un’improponibile plastica color argento.

Lo ricordo ancora: ero seduta in penultima fila, vicina alla porta, a un passo dalla fuga, lontana anni luce dalle altre madri che, dismesse e trasandate, erano ‘sì fiere dell’insignificanza, esibita dai loro figli… erano così contente che non potei esimermi dal chiedermi se, in fondo, l’errore non fosse il mio; se, in fondo, l’errore non fossi io.

Dal canto suo, Marco se ne stava un po’ in disparte, in piedi, appoggiato, braccia conserte, a una colonna ad appena due metri dal palco.

La luce biancastra dei riflettori – pochi – gli illuminava gli occhi, due carboni vivi in mezzo alla cenere.

Il suo sguardo era liquido, al limite del pianto.

Mi resi conto solo allora che anche Marco, stretto nel suo pullover cremisi da vecchio rivoluzionario, non stava più nella pelle.

Era orgoglioso di Giulio con una sciatteria pressoché identica a quella delle madri con la videocamera, che tanto aborrivo e da cui mi tenevo a debita distanza.

Mi fece ribrezzo, ma ingoiai il rospo: era il momento di Giulio – era il mio momento.

Un silenzio attento piombò nel seminterrato che qui chiamavano “teatro”.

«A… – io e Giulio ci scambiammo una rapida occhiata. Annuii appena con la testa come a dirgli, vai – A… Na-na-nata-Nata- Natale.»

Le parole spezzate, corrose, usurate – fatte a pezzi dalla lingua di Giulio – mi si piantarono nelle meningi come un punteruolo.

All’ennesima sillaba smozzicata, vomitata dalla giovane bocca di mio figlio, m’alzai.

A lenti passi, mi avvicinai al palchetto.

Senza neanche salirci sopra, scostai il palo del microfono dal corpo inerme del mio bambino; e lì, sotto lo sguardo attonito delle madri con la videocamera, gli tirai un ceffone in piena faccia.

Lo schiocco carnale del palmo teso della mia mano sulla guancia morbida di mio figlio riecheggiò per un po’ tra le sedie pieghevoli e i muri inverditi dall’umidità.

Dopodiché, mi allontanai; afferrai la borsa, che avevo lasciato per terra vicino al mio posto; e me ne andai.

I singhiozzi inconsolabili di mio figlio mi accompagnarono fino al cancello.

«Sara, che cazzo hai fatto?», mi urlò dietro Marco col poco fiato che gli era rimasto nei polmoni.

Per raggiungermi, aveva corso – per starmi dietro, Marco correva sempre; ma, alla fine, non è mai riuscito a starmi al passo, ad afferrarmi, a legarmi a sé.

«Il mio dovere di madre.», gli risposi. Solo questo: il mio dovere di madre.

«Di questo passo, lo rovinerai. – Marco si passò, disperato, le dita incerte tra i capelli nerissimi. Ora che ci penso, anche allora aveva lo sguardo esausto di chi s’è già perduto – rovinerai nostro figlio, ma non lo capisci…»

«No, Marco, Giulio non è nostro: Giulio è mio e, con le cose mie, io ci faccio quello che voglio.»

Non aspettai neppure che mi rispondesse.

Me lo lasciai alle spalle con l’incredulo orrore di chi rinuncia a fatica alle proprie cattive abitudini.

II.

E bisogna che io prenda le difese di mia madre

«Tuo padre è morto – informo Giulio, posando sul piattino la tazza di tè che stavo sorseggiando. È ormai freddo, ma, per qualche ragione, continuo a soffiarci dentro. – pare per un tumore, una specie di leucemia, non ho capito bene, in verità.»

«Quando è morto?», mi chiede, con voce ferma, continuando, come se nulla fosse, a spizzicare con i rebbi della forchetta la sua fetta di torta.

«Circa sei giorni fa, ma dalla clinica mi hanno avvisata solo oggi.»

«Capisco… – esita e, sguardo basso, annuisce con la testa – vuoi dell’altro latte nel tuo tè?»

«Perché no?»

Lascio che Giulio mi versi altro latte; che cambi argomento; che mi confermi, in silenzio, i sospetti di suo padre.

Marco è morto, mi ripeto, mentre Giulio mi parla d’altro, Marco è morto; vorrei urlare, Cristo, Marco è morto solo come un cane. Non c’è più rimedio, l’ho rovinato… Sant’Iddio, aveva ragione: non c’è più rimedio. Ho rovinato mio figlio.

Ho strappato Giulio alle braccia di suo padre, prima ancora che potesse conoscere l’amore di un padre.

E, negli anni, ho continuato, imperterrita, a strapparlo, a lacerarlo, a falcidiarlo… finché di lui è rimasto quasi nulla: il guscio vuoto di un uomo – carne grigia nella luce a neon.

«Tutto bene?», mi domanda col sorriso inquieto di Marco.

Mento.

«Sì. Perché?»

«Mi sembri distante.»

Allungo la mano, accarezzo piano il viso contratto di mio figlio.

«No, Giulio. Io sono sempre qui.»

«Lo so, mamma, lo so.»

Lascia un Commento