La scuola non serve a nulla: meglio trasformarla in un’azienda

"La geografia scolastica riproduce quella sociale disegnando a quel livello la società dei performer dello stadio “superiore”. In buona sostanza, siamo tutti dei dipendenti."

Parliamoci chiaro, l’ex ministra dell’istruzione Azzolina aveva proprio ragione: “gli studenti non sono imbuti da riempire”. Eh sì, perché quella dell’ex ministra grillina non era una gaffe, ma più precisamente la descrizione di quanto accade ogni giorno nelle nostre scuole, ed oggi più che mai in tempi di DAD. Gli studenti non sono dei vasi, come recita la citazione di Plutarco che l’Azzolina ha maldestramente richiamato, ma – quando va bene – sono degli imbuti da riempire: ossia destinatari di informazioni che vengono filtrate e trasmesse ma priva di una base per trattenere e assorbire.

Siamo sinceri, la DAD, i banchi con le rotelle, le immagini dei professori svampiti di fronte alla webcam rappresentano soltanto la ciliegina sulla torta di un sistema in crisi da anni. Una decadenza, quella della scuola, che ha radici ben più profonde di quelle del 2008, quando la crisi finanziaria allora in atto ha fatto sì che sanità e istruzione venissero trasformate in portafogli privilegiati dello Stato, settori scelti per diventare rubinetto delle casse statali, destinatari dei metodici tagli alla spesa pubblica. Lo sfacelo ha infatti origini più radicate, profonde e trasversali, investendo di fatto ogni colore, dalle destre Morattiane e renziane alle “riforme” gialloverdi, tracciando il perimetro del paradigma politico degli ultimi trent’anni: burocratizzare e aziendalizzare ogni ambito della vita pubblica.

Perché ridurre l’istruzione ad una merce?

Si badi bene, questo è un processo che non riguarda soltanto il nostro paese, investendo bensì l’intero programma delle politiche europee: numerose, difatti, sono le raccomandazioni del Consiglio Europeo dirette ad incoraggiare un dirottamento delle politiche scolastiche statali verso un orizzonte più attento alla dimensione economico-lavorativa. Si è parlato a proposito di “mercificazione dell’educazione” in quanto l’istruzione è la base fondamentale attraverso cui sostenere e implementare la competizione economica; attraverso l’istituzione si forma la futura forza lavoro, il soggetto consumatore e il competitor. E ciò non soltanto a livello degli studenti. La mercificazione investe tutta l’istituzione scolastica: dall’organizzazione, ai docenti, alle funzioni, fino allo scopo ultimo della stessa. È così che siamo passati dal preside al dirigente, dal professore al formatore, dal sapere alla competenza.

Le scuole sono un’azienda

Il modello organizzativo della scuola vede un appiattimento sulla struttura tipicamente aziendale adottando un modello verticale di tipo gerarchico. D’altronde la stessa terminologia non lascia adito a fraintendimenti. Il dirigente – il manager – è proprio la figura familiare tanto al mondo dell’azienda quanto a quello della burocrazia. E sì, perché con il decentramento scolastico attuato in trent’anni di politiche statali è fondamentale far quadrare i conti, mica l’istruzione. Ogni scuola deve pubblicizzarsi (ricordo ancora oggi il mio volto inebetito di fronte un cartellone pubblicitario che promuoveva l’iscrizione ad un noto liceo della mia città), ciò in quanto i fondi scolastici vengono ripartiti in base al numero di iscritti e voti conseguiti, in perfetto stile costi-risultati. Tra questi fondi, poi, sono quelli di istituto a pungolare maggiormente gli appetiti della compagine dirigenziale ributtandola in uno stato di insazietà perenne. Il fondo d’istituto infatti, concepito per ampliare l’offerta formativa al fine di attivare il contenuto esperienziale della formazione scolastica, diviene strumento per accontentare, allettare e fidelizzare, tramite i progetti, lo staff del dirigente: personale ATA e docenza più prossima alla linea dirigenziale.

La scuola-azienda, dunque, viene perversamente trasformata in un progettificio/diplomificio, compartimentato in settori (dai collaboratori amministrativi fino alla docenza) con a capo un soggetto che il più delle volte è distante dai problemi della classe, non avendo nessun legame, neppure nativo, con essa, avulso com’è dalle istanze e dai bisogni che attraversano concretamente i banchi di scuola.

Insegnanti: tra frustrazione e indolenza

Nell’era delle LIM e dei registri elettronici, l’insegnante è – tendenzialmente – un romantico disilluso, inerte e inconsapevole, vetusto anche quando imberbe, continuamente subissato da impegni amministrativi e burocratici, da corsi di aggiornamento sui metodi valutativi e sull’uso degli ausili tecnologici, dalle riunioni del collegio docenti, piegato supinamente nella pratica dell’approvazione pedissequa della linea dirigenziale (qualcuno sfiderebbe a trovare decisioni collegiali non adottate all’unanimità, pare infatti che l’accusa di eresia sia tornata di moda presso i corridoi scolastici). Sempre in bilico sul filo del programma, – un programma tuttavia disancorato dalla realtà odierna, ma plasmato su modelli anacronistici – il docente attraversa una giungla impervia attentato, da un lato, dai genitori, sempre più vicini al ruolo di “sindacato degli studenti”, sempre pronti a chiedere udienza per contestare uno 0,2 di media; dall’altro gli insegnanti, anche loro, in perenne competizione l’uno con l’altro, nell’ansia di non destare noie al dirigente (e ai suoi vicini), e con la speranza di ottenere qualche beneficio di ritorno (in termini progettuali) in un sistema che strizza l’occhio al più bieco servilismo.

Eppure è interessante constatare come nel processo di assorbimento indiscriminato delle logiche aziendalistiche, a non essere assimilato sia proprio l’unico elemento che potrebbe fare la differenza nel mondo dell’insegnamento: il colloquio lavorativo. Direte voi, ma perché? Fanno un concorso, perché fare pure un colloquio? La risposta è semplice e pratica: perché, come diceva Platone, l’apprendimento avviene per via erotica. C’è differenza tra sapere e saper insegnare. E detto francamente, se hai tre lauree, due master e venti pubblicazioni, ma non sei nemmeno in grado di ispirare tuo nipote a vedere Harry Potter, forse è il caso che ti dai alla ricerca.

Il colloquio infatti è l’unico momento in cui è possibile effettuare una valutazione della personalità di un candidato, di verificarne l’aderenza rispetto ad una professione che non richiede soltanto il possesso di una conoscenza, o persino di una competenza, quanto un’inclinazione, una disposizione d’animo, una vocazione ad una missione. Ma alla scuola questo non interessa. La scuola italiana – se e quando riesce – passa informazioni, che sì possono essere utili, ma, allo stesso tempo, sono unidirezionate al mondo economico in vista di formare il futuro lavoratore. Dell’uomo, del cittadino, della sua dimensione politica e sociale, non interessa proprio a nessuno.

Lavoratori in competizione

Qualcuno penserà che è solo una questione terminologica, ma in verità c’è di più: crediti, debiti, scuola-lavoro, risultati, ritardo, skills etc. sono parole che fanno parte di un più ampio programma di ridefinizione dell’adolescente e dell’obiettivo formativo. La scuola è il primo momento in cui si sperimenta la condivisione e il confronto, in cui si acquista l’abitudine alla democrazia, la creazione del pensiero critico, l’emancipazione della ragione, la cultura come cura di sé e di ciò che ci circonda, la creazione di un uomo libero in quanto responsabile di sé e instradato sulla via della consapevolezza. Ma l’arrivismo e la competizione di cui è intrisa la dinamica odierna dei voti, delle prove Invalsi, dell’apprendimento come mezzo per il titolo e non come fine per la persona, introducono la logica del competitor nell’adolescente.

L’effetto più dirompente di questo modello riposa nella razionalità strumentale e utilitaristica che introduce: a cosa serve studiare? A cosa mi servono gli integrali, la termodinamica, Kant, Joyce, Tasso e via discorrendo? Ad un risultato. Un numero, però, che ha l’indole di definire la persona. Un numero che equivale a un dentro o fuori.  Che dice se vali o non vali, oggi e domani. Ed è così che siamo passati dai temi in classe alla comprensione del testo. Non perché la soggettività sia invalutabile, ma perché della soggettività, di quello che pensi e della qualità del tuo pensiero, non importa niente a nessuno. E se è così, perché non dovresti guardare all’altro come qualcuno da cui difenderti? Qualcuno con cui non condividere la tua conoscenza perché potrebbe superarti, schiacciarti, mettendoti in disparte più di quanto il sistema già non faccia.

La geografia scolastica riproduce quella sociale disegnando a quel livello la società dei performer dello stadio “superiore”. In buona sostanza, siamo tutti dei dipendenti. Dipendiamo dai fondi, dai costi, dai titoli, dai risultati, dal voto altrui: quello del dirigente, quello dell’insegnante, quello della società.

Eppure la scuola non è sempre stata così: il progressismo degli anni ’70 ha creato il concetto di comunità educante, dell’alleanza scuola-famiglia, della ricerca pedagogica, dell’istituzione degli organi collegiali all’interno degli istituti, concepiti come case in cui la vita originava a riparo delle disuguaglianze economiche e sociali di ciascuno. E no, non è un modo per dire che era meglio prima, che il passato è meglio di questo pallido presente.

È un modo per sottolineare che ora come allora non v’è rivoluzione culturale, politica e sociale, come quella che ha aperto alle grandi riforme civili degli anni ’70 e ’80, che non abbia il suo principio nella riforma della scuola.

D’altronde, come sosteneva Mandela, “l’istruzione è l’arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo”

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