La privatizzazione degli istituti penitenziari: rieducazione o lucro?

"Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato." Art. 27 Costituzione

Quando si parla di privatizzazione delle carceri, il nostro pensiero è subito riconducibile al modello americano.

Chi di voi non ha mai visto Orange is the new black?
Bene, la famosa serie distribuita in Italia da Netflix, tratta da una storia vera della ex detenuta statunitense Piper Eressea Kerman, fornisce un racconto sulle carceri private statunitensi, seppur romanzato e tendente ovviamente ad una drammaticità propria di una serie televisiva.

Il business della privatizzazione delle carceri negli Stati Uniti è ormai storia nota sin dagli anni ’80.
Per contrastare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, il governo statunitense decise di affidare al settore privato la gestione delle strutture carcerarie pubbliche, cosi da renderne più efficiente la gestione e il costo delle stesse.

Ma come funziona la privatizzazione di una struttura pubblica carceraria?
Per prima cosa si indice una gara d’appalto, le singole aziende propongono e presentano i loro progetti atti ad ottenere il permesso per la costruzione della struttura e la gestione dei servizi interni della stessa.
Il progetto ritenuto più consono vince la gara d’appalto.

Lo Stato, successivamente, versa all’azienda che ha vinto l’appalto un cospicuo contributo per ogni detenuto. Inoltre, vi sono versamenti di quote statali inerenti alla gestione dei servizi interni alla struttura, come i servizi di mensa, di assistenza sanitaria, etc.

Un fenomeno, quello della privatizzazione, che rende un servizio di carattere sociale con scopo rieducativo, al pari di un meccanismo aziendale che raggiunge all’incirca 162 milioni di dollari all’anno.
Ovviamente, se la struttura può ospitare più detenuti, la stessa otterrà più contributi statali per ogni suo ospite.

I dati ci informano della presenza di almeno 100mila detenuti per le carceri federali, oltre 1,2 milioni per quelle statali ed oltre 600mila per le prigioni locali.

Le problematiche sorte in seguito al consolidamento di tale sistema carcerario privato negli Stati Uniti riguardano principalmente:

  1. L’inasprimento delle pene, teso alla concreta volontà di punire il reo attraverso la pena della detenzione, senza ricorrere a misure alternative alla stessa;
  2. Il rischio che i servizi interni all’istituto carcerario siano di minor qualità, perché se la gestione è affidata ad un’azienda privata, i costi considerati superflui devono essere ridotti;
  3. Le difficoltà nel controllo della gestione della struttura in merito al buon funzionamento della vigilanza, teso a valutare se le condizioni di vita e di rieducazione siano effettivamente garantite ai detenuti. Difatti, qualora vi fosse qualche mancanza, risulta alquanto arduo riscontrarla in ambito privato. Il sistema pubblico soggiace a determinate regole che purtroppo nel privato sono difficili da garantire e controllare;
  4. Le criticità inerenti all’effettiva adeguatezza del personale assunto, che in ambito pubblico è più facile da garantire rispetto ad un sistema privato.

In Italia, per ovviare alla grave situazione di sovraffollamento delle carceri, si è pensato di sperimentare il modello statunitense, con l’affidamento a privati degli Istituti penitenziari di Bolzano e Nola.

Secondo il rapporto annuale di Antigone: “sono 42 gli istituti di pena con un tasso di affollamento superiore al 150%. Di questi, 10 si trovano in Lombardia e 6 in Puglia. Le carceri di Taranto e Como, con un tasso di affollamento rispettivamente del 199,7% e del 197%, sono percentualmente le più sovraffollate d’Italia. Seguono l’istituto di Chieti (193,6%), quello di Brescia Canton Mombello (193,1%) e quello di Larino (192,1%)”.

Tuttavia, gli Istituti carcerari privati di Bolzano e Nola hanno riscontrato numerosi rallentamenti burocratici nella loro costituzione, accrescendo così non poche incertezze sulla loro effettiva utilità ed efficienza.

Ebbene, giova ricordare a tal proposito che la nostra amata Carta Costituzionale, all’art. 27,  offre un importante monito su cui riflettere:  “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Difatti, a prescindere dal futuro della privatizzazione degli istituti penitenziari, in Italia, il nostro Ordinamento Giuridico garantisce che il trattamento penitenziario tenda alla rieducazione dell’individuo, con lo scopo di favorire il suo reinserimento nella società.

È evidente che la rieducazione dell’individuo si identifichi nella correzione del comportamento antisociale dello stesso. Questa comprende un percorso  basato sulla responsabilizzazione e consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni e un graduale reinserimento sociale, quali sono i suoi diritti ma soprattutto i suoi doveri, così da scongiurare il pericolo che possa in futuro commettere nuovamente quelle condotte criminose.

Dunque, bisogna chiedersi se tale auspicata rieducazione dell’individuo tesa alla reintegrazione sociale dello stesso, possa effettivamente essere conciliata con gli scopi di lucro propri delle aziende private.

Ebbene, è necessario evitare che il fenomeno californiano dell’aumento dei detenuti, giustificato dal business delle privatizzazioni penitenziarie, diventi una realtà nostrana; occorrerebbe mirare ad una maggiore privatizzazione di alcuni servizi penitenziari, come i servizi di ristorazione, di lavanderia, etc, così da agevolare le carenze economiche pubbliche e poter tenere fede a quanto auspicato dalla nostra Carta Costituzionale.

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