È sotto il segno segno dell’irruzione che la protagonista de La parte di Malvasia, quarto romanzo di Gilda Policastro (La nave di Teseo, 2021), si offre fin dall’incipit al lettore: «Toglie le tende ai balconi: è così che si accorgono di lei […]. Nessuno l’aveva mai vista. Nemmeno si sapeva della casa messa in vendita […]: non risultava che l’appartamento fosse stato visitato da qualcuno» (p. 11). Malvasia entra all’improvviso nella vita tranquilla e monotona di un anonimo paese di periferia, e lo fa anzitutto come puro segno, entità cava, nome su un campanello che «poteva essere […] anche un cognome» (p. 12). Non è un caso che il primo capitolo sia quasi interamente narrato da una voce collettiva, quella di una comunità che si china morbosamente sulla «straniera», cercando di svelarne il mistero: chi è questa donna? da dove viene? che mai dovrà fare in paese? Ma queste domande, almeno in un primo momento, rimarranno prive di risposta, perché Malvasia, con un’irruzione di potenza uguale e contraria, verrà trovata morta nel suo appartamento. Forse uccisa.
Le premesse sono in linea con le aspettative di un giallo qualsiasi: il ritrovamento del cadavere mette in moto le indagini della polizia; un commissario e il suo aiutante (in realtà vero e proprio deuteragonista) rintracciano i contatti della donna, ne passano al setaccio la vita privata; una folla di personaggi, perlopiù amanti di Malvasia, scorre sotto gli occhi del lettore in una serie di interrogatori dal gusto gaddiano. Si cercano alibi e moventi; si cercano i colpevoli. Si cerca, insomma, la verità. E tuttavia, il romanzo di Policastro non vuole intrattenere il lettore con un’indagine lineare e ricca di suspense, possibilmente orientata a una soluzione conclusiva. Lo strumentario del “buon giallo” è negato in partenza; l’indagine, fin da subito, spinta sullo sfondo. Al suo posto, un amalgama disorientante di voci e flussi verbali, brani di vita vissuta che riemergono in successione rapsodica, con salti temporali non segnalati o cambi di prospettiva altrettanto ben camuffati. Ciò che si ricerca è la complicazione, o addirittura l’interruzione del patto narrativo, che in un fondamentale colpo di scena, forse unico, reale coup de théâtre dell’intero romanzo, diventa vera e propria sospensione della logica del racconto.
In una presentazione online per la scuola di scrittura creativa Molly Bloom, di cui è insegnante, Policastro ha sottolineato a più riprese la presenza di due nuclei tematici fondamentali: il Male, in accezione soprattutto leopardiana e dostoevskiana (e di Leopardi e Dostoevskij il romanzo è ricco di riferimenti), e l’ineluttabilità della morte. Morte, però, che non ha a che fare soltanto con la fine violenta, improvvisa e spettacolare su cui generalmente si incardina il genere del giallo, e che Malvasia, piuttosto, cerca di neutralizzare (al lettore non solo è negato il piacere catartico della soluzione dell’indagine, ma anche quello morboso della visualizzazione dell’omicidio). Esiste un’altra declinazione della morte, in questo libro, che è invece sotterranea, logorante. È la malattia, la morte ospedaliera, con la cui fatalità si è costretti a convivere, soprattutto se colpisce una persona cara. Che vi sia un fondo autobiografico, e che da quel fondo parta più o meno tutta l’invenzione romanzesca, l’autrice non lo nasconde. Più interessanti, semmai, sono le motivazioni implicite dell’intera operazione: non, come la stessa Policastro chiarisce, imbastire un’elaborazione del lutto che conduca a un’appropriazione di senso definitiva (“ricominciare da capo”, “rifarsi una vita”…), ma penetrare in quel groviglio depressivo di angoscia e perdita, guardare in faccia il «male oscuro» e lasciare che esso irradi di sé il materiale narrativo. Se catarsi c’è, non è esibita con clamore; piuttosto, deve essere ricercata fra le righe del testo, nei suoi lapsus e doppifondi, nel sarcasmo urticante – ma anche nella malinconia – di tanti splendidi passaggi.
Ecco allora che il finto-giallo, con tutto il suo apparato di depistaggi, sospensioni, camuffamenti e «travestimenti» (titolo di uno dei capitoli e, non a caso, termine chiave della poetica di Edoardo Sanguineti, di cui Policastro è una delle interpreti maggiori) trova una forte giustificazione proprio nella volontà di non raffreddare il trauma in una sequenza narrativa coesa e coerente. Di trasformare, sì, la vita in letteratura, ma non in letteratura ben fatta. Come quando, nella fantascienza, l’astronave si avvicina al buco nero e i parametri di tempo e spazio iniziano a confondersi, così, in Malvasia, l’irruente instabilità del racconto e delle identità caratteriali, sempre sul punto di dissolversi, cambiare, capovolgersi in altro, non sono che il risultato dell’attraversamento di una singolarità. Il trauma del lettore, secondo una tradizione tutta novecentesca che Policastro, da critica finissima, ha bene in mente, contribuisce a tenere vivo il trauma dell’autore.
Tradizione novecentesca, certo. Ma quale? Il pantheon dell’autrice è vastissimo, certo non riconducibile al solo Carlo Emilio Gadda e al suo Pasticciaccio (paragone scontato, e tuttavia obbligato, dati anche certi elementi che potrebbero essere apertamente intertestuali: la scena del ritrovamento del cadavere, ad esempio, sembra dialogare proprio con la scena omologa del capolavoro gaddiano). Chi però conosce Policastro anche al di fuori dell’ambito romanzesco e poetico, vale a dire chi ne conosce la figura di critica e teorica della letteratura (è d’altronde di poco successiva a Malvasia la pubblicazione del saggio L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi, Mimesis, 2021), sa che il suo bacino di riferimento può essere esteso più o meno a tutta la Neoavanguardia, ma anche ad alcuni fieri outsiders del nostro canone, come Guido Morselli o Giuseppe Berto (Il male oscuro, appunto). Si ritrova, insomma, in questo romanzo colto e tenebroso, ma capace di estrarre gemme di un comico disperato pur da un materiale essenzialmente tragico, l’esito di una linea a cavallo tra espressionismo, sperimentalismo ed esistenzialismo. Linea “oscura”, “negativa”, addirittura nichilista, ma che ormai chiede di essere riconosciuta a pieno titolo.
E però, c’è un autore che forse più di tutti sembra adombrato nella struttura narrativa. Come scrive Gerardo Iandoli in un’acuta analisi del romanzo, l’omicidio, anziché essere il punto d’avvio di un racconto a ritroso, come tradizione giallistica vorrebbe, diviene il pretesto per «far fiorire una serie di storie». Storie narrate perlopiù in prima persona, con implicita e ricercata difficoltà di capire chi sta parlando, e soprattutto quando rispetto al presente narrativo. Così, la voce di Malvasia viene recuperata in sequenze di flashback che ne illuminano l’infanzia e il rapporto con la famiglia; il personaggio di Gippo, l’aiutante del commissario cui si è già accennato, si sostituisce in modo perturbante alla protagonista, complicando ulteriormente, con la sua storia, il progresso dell’indagine. E poi, altri racconti e sottoracconti, altre voci che entrano ed escono; ma al centro di questa spirale vi è il cadavere di una donna, cadavere che comunque parla, si racconta, narratore costretto in una condizione di immobilità se non addirittura di negazione. Con le dovute cautele e i dovuti aggiustamenti, sembra quasi di vedere in filigrana l’impalcatura narrativa del Giuoco dell’oca di Sanguineti, romanzo d’avanguardia del 1967 in cui il narratore si ritraeva come sigillato vivo in una bara, impossibilitato a muoversi, certo, ma non a riempire l’oscurità della sua condizione con un assurdo «fiorire» di storie.
Morte come premessa, dunque; morte (intesa sia come esperienza della morte altrui, sia come messa a distanza del racconto di sé) come condizione necessaria al narrare. La parte di Malvasia è un romanzo che si pone al confine del romanzo stesso, saggiandone le possibilità in un contesto storico votato al consumo bulimico di “storie”. E nel farlo, non cede a tentazioni puramente ludiche. Policastro non si allontana mai da un nucleo vivo di sofferenza; lo fa anzi rivivere traumaticamente, costringendo il lettore a confrontarvisi in libertà, fuori dalla maglia di protezione di un intreccio avvincente o di una ruffiana happy end. Proprio per questo, oltre che per l’altissimo valore di invenzione letteraria, Malvasia è un libro più che necessario in tempi di racconti usa e getta, di facili catarsi netflixiane.
Marchigiano, classe 1991. Sebbene in passato sia quasi diventato un architetto, ora è laureato in Italianistica all’Università di Bologna e aspira a diventare un ricercatore in Letteratura Contemporanea. Periodo storico preferito, il secondo Novecento. Ama la città e la sua vita frenetica, ma forse ama di più i piccoli borghi di campagna, di cui la sua terra è fortunatamente ricchissima. Appassionato di cinema, musica, arte ed è anche un vorace lettore, soprattutto di poesia.