"Un’appropriazione indebita e fieramente eretica dell’eredità marxiana, addirittura queer, se si pensa alla carica provocatoria di quel «miss» collocato proprio di fronte al nome-trademark del filosofo tedesco."

Che i testi di Karl Marx, e del marxismo in generale, siano poco letti dai politici e dagli intellettuali di sinistra è cosa risaputa. Marco Gatto, docente e ricercatore presso l’Università della Calabria, ha recentemente ricostruito la paradossale abiura di Marx da parte di quei movimenti e di quelle personalità che comunque, fino agli anni ’80 inoltrati, continuavano a identificarsi nella galassia marxista. Secondo Gatto, a partire dal periodo delle contestazioni, quindi indicativamente dal 1967-‘68, i militanti della sinistra di allora avrebbero progressivamente dimenticato, talvolta rimosso, non solo alcuni dei principi cardine del pensiero marxista, ma addirittura i testi fondativi di quella filosofia (M. Gatto, Marxismo culturale, Quodlibet, 2012). Da qui al completo eclissamento di autori fondamentali per la cultura europea del ‘900, non solo marxista, come Marx, Engels, Luxembourg, Lukàcs, Bloch, e naturalmente Gramsci, il passo è stato breve – e la falcata arriva fino ai nostri giorni.

Basti vedere, d’altronde, come è stata accolta la recente occorrenza del centenario della Scissione di Livorno, prima grande frattura della sinistra italiana che, nel 1921, portò alla creazione del Partito Comunista d’Italia: cautele,prese di distanza, appiattimento storico sulla situazione presente. Peccato, però, che tra i dissidenti del ‘21 ci fosse proprio Antonio Gramsci, e che il partito che allora nacque, che tra il secondo dopoguerra e il 1991 fu «il più grande Partito Comunista d’occidente» (non solo per prestigio dei singoli esponenti, ma proprio per numero di iscritti e per presenza sul territorio), abbia letteralmente dato i natali alle sinistre di oggi.

Speculare a questo processo di rimozione e a questa volontà di non fare i conti con il passato, anzi di nasconderlo sotto il tappeto, negli ultimi anni si è potuto assistere a un curioso e crescente interesse per Marx e Gramsci da parte di certe aree della destra conservatrice e reazionaria, alle quali ci si riferisce, di solito, con il termine impreciso ma efficace di rossobrunismo. Si tratta di movimenti, o addirittura di partiti, che si collocano al confine tra destra e sinistra, prendendo della prima le istanze identitarie, sovraniste, tradizionaliste, e della seconda alcuni tratti che storicamente la connotavano: l’anti-capitalismo, per esempio, il lessico rivoluzionario, alcuni concetti chiave come «lotta di classe» o «egemonia», e via dicendo. Il risultato è un incrocio solo apparentemente contraddittorio, perché, in fondo, ciò che questi movimenti esprimono sono istanze di ultra-destra, le quali vengono sì portate avanti con un lessico a tratti marxista, ma spesso utilizzato in maniera tendenziosa e strumentale, quando non proprio decontestualizzandolo dalle fonti originali.

Ora, di fronte a una situazione tanto sfrangiata, dà da pensare che nel 2020, in piena pandemia, anzi nell’unico spiraglio concesso dal Coronavirus alla riapertura dei cinema, sia uscito un film così orgogliosamente inattuale e fuori tempo come Miss Marx di Susanna Nicchiarelli.

Produzione italo-belga dal sapore indipendente, in gara a Venezia 77 sia per il Leone d’Oro al miglior film che per la Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile a Romola Garai, la pellicola si presenta fin dai titoli di testa come un’appropriazione indebita e fieramente eretica dell’eredità marxiana (addirittura queer, se si pensa alla carica provocatoria di quel «miss» collocato proprio di fronte al nome-trademark del filosofo tedesco). E poi i fiumi di rosa, la colonna sonora stridente e graffiante dei Downtown Boys, il font del titolo che rende spigolose e taglienti quelle quattro lettere impronunciabili… Anche solo rimanendo sulla «soglia del testo», per dirla con il semiologo Gérard Genette, appare evidente come l’intento di Nicchiarelli sia quello di dialogare, più o meno apertamente, tanto con le frange della sinistra progressista “pentita” che con quelle della destra innamorata di un’immagine posticcia. Richiamandole, le prime, a considerare l’attualità del marxismo una volta sottratto a certe incrostazioni storiche e ideologiche; sfidandole sfacciatamente, le seconde, proprio sul campo del progressismo, dell’egalitarismo e dell’etica civile. E facendolo, soprattutto, a partire dall’esposizione di un corpo, il corpo femminile, marginalizzato e a sua volta dimenticato dell’ultimogenita di Karl: Eleanor Marx.

Londra, 1883: il grande filosofo è appena deceduto. Al suo funerale, una sparuta delegazione del Partito Socialista locale, tra cui l’amico e collaboratore di sempre Friedrich Engels. Eleanor è l’unica, in un mare di luttuoso nero, a sfoggiare un inopportuno e bellissimo abito rosso. Ci appare proprio di fronte, imponente nel lungo cappotto, mentre recita un’orazione funebre in cui ricorda la figura del padre. Ma il suo discorso non ha nulla di politico, al contrario è un’affettuosa e commossa memoria filiale, in cui Karl viene descritto come padre premuroso, come marito tenero e presente, come nonno dolce e attento. In quella che dovrebbe essere un’occasione solenne, insomma, Eleanor opta per un’esposizione del privato, per un’apertura all’intimità che, almeno in apparenza, non ha nulla di ciò che una situazione del genere richiederebbe.

La commistione di privato e politico, si scoprirà andando avanti nella visione, è uno dei tratti stilistici dominanti della pellicola. Eleanor è sì una borghese rivoluzionaria, attenta studiosa del socialismo e delle opere del padre, ma è anche una donna fragile e dal carattere complesso, sensibile e attenta al prossimo, che sia il piccolo nipote o il figlio illegittimo di Engels. Per Eleanor, insomma, il socialismo è anzitutto ridefinizione dei rapporti privati, che siano familiari, amicali o coniugali, e, come ripete o lascia intendere più volte, non si può fare la rivoluzione senza prima mettersi in discussione come individui, fino alle radici delle abitudini più automatiche.

Questa attenzione all’individualità è sottolineata dal focus monolitico, quasi totemico, che il film mantiene sulla protagonista. La vediamo aggirarsi per la casa del padre, per quella del futuro compagno; la vediamo tenere comizi effervescenti, visitare fabbriche e partecipare a manifestazioni operaie; la vediamo stesa, in sottoveste, mentre si fa spalmare fanghi curativi sui capelli. La dimensione pubblica è solo un’appendice di quella domestica, e se Eleanor piange è proprio perché, mentre legge, ritrova tra le pagine di un volume del Capitale una vecchia lettera del padre alla madre. Allegoria potente, questa breve sequenza, della visione radicalmente umana della politica che il film tenta di veicolare.

Se però questi ingredienti, tutto sommato, rientrano nella casistica base del moderno biopic o film storico, ad allontanare la tentazione del melodramma intervengono due elementi che Nicchiarelli dosa con grande maestria: la colonna sonora e il montaggio. La prima, secondo un espediente divenuto abituale, per non dire convenzionale, almeno da Marie Antoinette di Sofia Coppola (2006), è volutamente sfasata rispetto al periodo storico descritto. Solo che Miss Marx, a differenza di tanti prodotti consimili (si pensi, ad esempio, alla recentissima serie TV The Great), preferisce il punk al pop, l’elettrico all’elettronico. E il risultato è caustico: ritmi frenetici, partiture veloci e indemoniate, sovrapposizione di suoni e voci fino ad assordanti effetti di dissonanza. I Downtown Boys, talvolta creando in proprio, talvolta facendo cover, talvolta mescolando a brani ottocenteschi sonorità rock (come La Campanella di Liszt, suonata su un tappeto di lunghe note di chitarra elettrica), creano dei veri e propri squarci nella continuità narrativa del film, che Nicchiarelli, con tecniche di montaggio stranianti, asseconda e valorizza. Come quando Eleanor e il suo futuro compagno vanno in America per un tour nelle fabbriche, e l’immagine di loro due in automobile viene sovrimpressa a filmati d’epoca in bianco e nero di vita di fabbrica e di rivolte operaie. Oppure, come nella potentissima scena del funerale di Engels, in un cui un’inaspettata, scalciante versione punk dell’Internationale interviene a commentare una carrellata di autentiche fotografie della Comune di Parigi del 1871.

Tecniche cinematografiche, scelte stilistiche, che raffreddano il materiale narrativo fino a portarlo su binari del tutto estranei alle consuetudini degli spettatori. Ma la stessa cosa può dirsi del trattamento della componente femminista, componente che diviene preponderante solo nella seconda parte del film, e sempre, comunque, a partire da avvenimenti privati della protagonista.

Del femminismo di Miss Marx si può dire che, oltre a essere declinato in una chiave convintamente socialista (attraverso il ricorso a brani di scritti della stessa Eleanor Marx, che paragonano la condizione femminile a quella del proletariato), esso non rispecchia i moderni canoni narrativi dei film o delle serie di emancipazione. Questo perché Miss Marx, in effetti, non è una storia di emancipazione. La protagonista, nel suo piccolo, è già, in un certo senso, emancipata: ha una vita sentimentale libera e autonoma; gode del consenso e dell’approvazione dei membri più anziani del Partito; tiene comizi e fa visite ufficiali di fabbrica. Eleanor, insomma, a differenza della protagonista del già citato The Great, non sembra avere un reale nemico contro cui scontrarsi e su cui prevalere.

L’intelligenza di Nicchiarelli, però, sta nel lasciare che lo spettatore noti, fin dall’inizio, una serie di comportamenti sfuggenti, apparentemente innocui, che connotano soprattutto i personaggi maschili. Come la tendenza a predicare finita l’istituzione del matrimonio, per poi ricadere nelle stesse dinamiche fedifraghe dell’ideologia borghese e patriarcale. Ideologia che, suggerisce Nicchiarelli, non ha bisogno di situazioni eccezionali per manifestarsi: Eleanor non viene rapita da nessuno Zar sessuomane e maniacale, non viene utilizzata come schiava, né la sua carriera di scrittrice e attivista sembra sentire particolarmente grave il peso di essere una donna in un mondo fondamentalmente maschile. Eleanor, insomma, è libera, ma quando la sua libertà attraversa il confine dei vecchi cascami del pensiero borghese, allora il suo bisogno di verità la porta a scontrarsi con un universo di valori che credeva estinto. Almeno all’interno della sua famiglia e del suo circolo di pensatori rivoluzionari.

In questo, Miss Marx non è per nulla celebrativo. Al contrario, le figure storiche che ritrae, a cominciare proprio da Marx ed Engels, ne escono fortemente chiaroscurate, non ridimensionate nella loro importanza, ma di sicuro presentate allo spettatore nella loro contraddittorietà di borghesi-antiborghesi. E questo, in un mondo che o rimuove o venera i suoi idoli, è certamente positivo, così come è positivo l’aver ritrovato, nel confuso panorama delle ideologie socialiste, proprio la voce decentrata di Eleanor Marx, che infatti più di una volta rompe la quarta parete e parla direttamente con il pubblico, recitando passi del Capitale o dei suoi stessi testi.

Una parabola, dunque, quella che Susanna Nicchiarelli ha brillantemente immortalato, che non ha nulla né di assolutorio, né tantomeno di rassicurante. Al contrario, questo film riesce nell’intento, delicatissimo e ambizioso, di fare politica attraverso un mezzo ormai quasi secondario, scavalcando molte delle convenzioni narrative e stilistiche cui lo strapotere delle serie TV ci ha abituato. E ribadendo, oggi, nel 2021, che è al cinema, non alla televisione, che spetta l’onere di ridare la voce ai grandi dimenticati del passato, di rievocarli come spettri e di farli nuovamente aggirare fra noi.

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