Nicola Lagioia non ha certo bisogno di presentazioni. Direttore del Salone del Libro e prolifico scrittore, è tra i nomi più influenti dell’intero panorama editoriale italiano.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e porgli qualche domanda durante la presentazione de “La città dei vivi” all’interno della rassegna per il PremioSila49.
Il suo è un libro che spalanca le porte del male e dell’oscurità, condizioni che ci sono più vicine di quanto crediamo e quanto vorremmo.
Quella raccontata da Lagioia è una storia di ordinaria follia, di un orrore racchiuso in un appartamento del Collatino, quartiere residenziale di Roma.
È all’interno di quattro mura in via Igino Giordani che si consuma l’omicidio di Luca Varani, ventidue anni, ad opera di Manuel Foffo e Marco Prato.
Le motivazioni che portano a tale gesto? Sconosciute, come sconosciuto era il nome di Luca ad uno dei suoi due aguzzini.
Quando viene chiesto a Manuel Foffo di chi fosse il cadavere avvolto in un piumone della sua camera da letto lui risponde
“Non lo so”.
Ma come si può non saperlo? Come si può non conoscere il nome di un ragazzo di ventidue anni a cui hai tolto, inspiegabilmente, la vita. Manuel Foffo non sa rispondere. A sua volta ci prova un disperato Marco Prato che, sulle note di “Ciao amore ciao” di Dalida, in un albergo di piazza Bologna, ha tentato di togliersi la vita con un cocktail di sonnifero e liquori.
Ma “La città dei vivi” non è solo una perfetta indagine giornalistica che scava nelle radici del male, interrogandosi su di esso, attraversandolo, scrutandolo; è uno sguardo sulla debolezza, sulla tracotanza, sulla solitudine. È uno sguardo sull’abisso, un abisso che ha al centro una Roma dilaniata da una quotidianità cupa e apparentemente senz’anima.
La Roma di Lagioia non lascia scampo all’inferno, un inferno di vivi e viventi che non dà tregua anche a chi la ama disperatamente. Roma è un intreccio di storie, beatitudini, contraddizioni, sofferenze.
Solitudini.
È una città talmente abituata al dolore e al male da non saperlo contenere, lascia che accada e che i suoi figli ne vengono, inevitabilmente, attratti e risucchiati.
Quello di Nicola Lagioia è un lavoro imponente e polifonico (anche se la voce più “nera” della città fa inevitabilmente un rumore assordante), elaborato e costruito nei dettagli, oltre che profondamente radicato nella realtà delle dichiarazioni rilasciate dai soggetti coinvolti.
Il caso di cronaca è presentato al lettore senza mai perdere di vista l’umanità, quasi sempre celata, di ciascuno dei protagonisti.
“La città dei vivi” diventa un viaggio doloroso per le strade ferite di una città oscura e crudele e, pagina dopo pagina, si definisce anche indagine sulla natura umana, sul libero arbitrio, sulla solitudine radicata nelle viscere di Roma e di chi la abita.
Nicola Lagioia ha il merito di portarci a fissare lo sguardo proprio dove il senso comune ci direbbe di voltarci dall’altra parte, nell’intento di rendere umani anche i carnefici, di non farci sentire mai e in nessun modo al sicuro, costringendoci a riflettere con lucida onestà su chi siamo, su ciò che potevamo o possiamo diventare.
Un po’ come la stessa città di Roma, vittima innocente e carnefice spietato, capace dì inghiottire qualsiasi cosa. Anche sé stessa. Quella della “Città dei vivi” non è solo cronaca ma anche audace letteratura.
Questo libro è come un grido di salvezza a non sentirsi intoccabili dalla tragedia e dal dolore, a ripensare il nostro stesso modo di stare al mondo ed essere vivi, a cercare di dissolvere ogni solitudine combattendo le ombre che inevitabilmente ci portiamo dentro.
Un invito ad accettare di scendere ogni giorno nel nostro personale labirinto per sconfiggere, di continuo e mai per sempre, quel minotauro che tentiamo, disperatamente, di sconfiggere.
Questo è un libro che si fa indagine dettagliata, sguardo serio, riflessione preziosa che ha soprattutto il pregio raro di far parlare anche chi non ha mai alzato la voce, i silenzi, le parole che non hanno trovato – e tuttora non trovano – la forza e il coraggio di uscire. Un’esperienza tragica, priva di qualsiasi speranza di resurrezione.
Oltre ogni apparenza, c’è speranza, una speranza che ha il sapore amaro di un liquore alla carruba, offerto nell’intimità di una casa che con genuinità non nega il confronto soprattutto con l’autenticità dì chi, con profondo rispetto, non ha mai cessato di cercare.
Docente, laureata in Lettere Classiche e Filologia Moderna.
Ha conseguito un Master in Economia e Organizzazione dello Spettacolo dal Vivo, perché il suo sogno nel cassetto è di diventare la giovane manager degli artisti lirici italiani nel mondo.
Dalla spiccata sensibilità, fa dell’istruzione la sua missione quotidiana, plasmando giovani menti, e fa volontariato in ospedale grazie alla sua prepotente voglia di aiutare il prossimo.
Appassionata di musica (di ogni genere), lettura e scrittura, soprattutto creativa.