In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, Nova ha incontrato Yvette Samnick.
Yvette è una scrittrice, mediatrice culturale, nonché fondatrice dell’Associazione camerunense di lotta contro la violenza sulle donne, (Associazione ACLVF). Dopo la laurea, conseguita nel suo paese d’origine, è arrivata in Calabria, dove si è laureata in scienze politiche nel 2016.
Da piccola è cresciuta in una famiglia poligama in cui il padre esercitava violenza sulla madre.
Una volta arrivata in Calabria dal Camerun, il destino beffardo ha voluto che anche lei avesse a che fare con un uomo violento: il suo compagno e padre di suo figlio Francesco, ha esercitato violenza fisica e psicologica su di lei.
Nel 2019 ha pubblicato il libro “Perché ti amo” in cui ha raccontato la violenza e il razzismo vissuti sulla sua pelle. I fondi ricavati dalla vendita del libro servono a finanziare la sua Associazione ACLVF.
Intervistata da Nova ha parlato di passato, presente e futuro e di come continui a lottare quotidianamente per vedere affermati i propri diritti.
Il suo libro, “Perché ti amo”, è un’ autobiografia che inizia descrivendo la condizione familiare poligama che ha vissuto da bambina. Quello è stato il momento in cui ha conosciuto la violenza fisica. Nel rapporto con il suo ex compagno, ha fatto esperienza di un tipo di violenza più subdola, quella psicologica. Cosa pensa del modo in cui questa forma di violenza viene raccontata nel dibattito pubblico? Se ne parla abbastanza?
“No. Non se ne parla abbastanza. È una violenza invisibile che al contrario di quella fisica non lascia segni. La violenza psicologica marchia la donna per sempre, lasciando dei traumi che la seguiranno per tutto il corso della vita e con i quali si può solo convivere.
È la prima violenza dal punto di vista temporale, poiché il violento non usa la forza dal primo giorno della relazione. Intrapresa la strada della violenza psicologica, si arriverà agli schiaffi.
Prima, però, ti avrà allontanato da amici e parenti. È come se costruisse un muro di mattoni circolari che ti isolano facendoti credere che tutti gli altri, al di fuori di lui, ti faranno del male e che solo lui sarà in grado di proteggerti.
Poiché le donne raramente si rendono conto che questo tipo di violenza, fatta di piccole cose, è in atto, iniziano a convincersi che l’uomo sia un vero protettore. Quando il processo di manipolazione sarà concluso, scatterà la violenza fisica vera e propria, e a quel punto, sarà troppo tardi.
La mia esperienza mi ha lasciato molti traumi ed anche se oggi sono un’attivista in difesa delle donne sento che quei traumi sono ancora dentro di me. Posso solo nasconderli ‘mettendoci una pietra sopra’, ma a volte i traumi riaffiorano; non se ne esce mai. Questo è quello che rende la violenza psicologica la più terribile tra le violenze”.
È molto facile sostenere che si debba denunciare al primo schiaffo ma lo si può fare davvero quando la dipendenza da un compagno violento è anche economica? Quanto influisce secondo lei la precarietà economica delle donne nell’accettazione di comportamenti violenti?
“Sono tutte violenze collegate ma su gradi diversi. È vero che una donna che non lavora subisce molto di più. Il disagio e la vulnerabilità sono maggiori.
Ma a volte anche una donna che lavora subisce la violenza economica perché ci sono casi in cui l’uomo pretende di gestire la sua paga.
Alle ragazze dico sempre di chiamarmi al primo ‘non mi piace come ti vesti’, poiché è un campanello d’allarme. Non è facile andare via perché quando arriva il primo schiaffo potrebbe essere già troppo tardi”.
In un’intervista all’Huffington Post ha raccontato che durante l’udienza per l’affidamento di suo figlio un Giudice le ha chiesto come mai una donna intelligente e laureata come lei si fosse trovata in questa situazione. Cosa gli ha risposto e cosa si sente di dire a chi crede sia solo una questione di intelligenza?
“Questa, secondo me, si può definire vittimizzazione secondaria. All’udienza per l’affido condiviso, mentre cercavo di spiegare cosa fosse successo, il Giudice mi liquidò dicendo ‘abbiamo capito, avete litigato’. Ho sentito sminuito il mio racconto.
Io la definisco: ‘La banalizzazione della violenza’.
La giustizia in Italia ha qualche problema. Di recente mi sono trasferita da Cosenza a Imola e secondo la legge avrei dovuto inviare tramite PEC il mio nuovo indirizzo al mio ex compagno.
Mi sono battuta affinché non fosse così. Le donne denunciano ma lo Stato non attiva dei meccanismi per proteggerle realmente.
Molti femminicidi avvengono ancora proprio per questo: le informazioni personali delle donne maltrattate vengono date ai compagni violenti solo perché l’affido del bambino è condiviso.
Se oggi mi chiedessi: ‘manderesti una donna a denunciare?’ ti risponderei di no.
Io ho denunciato ma spesso penso ‘chi me l’ha fatto fare’.
La verità è che i Centri Antiviolenza sono più vicini alle donne di quanto non lo sia lo Stato con le sue leggi.
Tuttavia, i Centri stessi hanno un’autonomia di azione limitata senza un supporto normativo adeguato.
I Centri Antiviolenza offrono case-rifugio che accolgono donne che rischiano letteralmente la vita.
La loro forza è la creazione di una rete di donne che aiutano altre donne.
Per contrastare la violenza fisica sulle donne dobbiamo prima di tutto debellare quella cultura che sostiene che sia una manifestazione di interesse. Dobbiamo cancellare e riscrivere tutto ciò che è stato detto sulle relazioni tra uomini e donne. Come crede che si potrebbe riuscire in questo intento?
Senza dubbio anni di cultura patriarcale non si modificano facilmente. Ma mentre nelle grandi città è in atto un cambio di prospettiva e alcuni messaggi sociali vengono recepiti maggiormente, nelle periferie si vive sulla base di una cultura differente e, per certi versi, ancora arretrata.
Sento ancora delle frasi come: ‘l’uomo lavora e la donna deve restare a casa ad occuparsi dei figli’.
Certi messaggi passano con facilità in televisione, davanti a migliaia di spettatori. Si crede che una chiave che apre tutte le porte sia una ‘chiave magica’, mentre una porta aperta da tutte le chiavi sia ‘maledetta’.
Quindi posso solo dire che c’è la necessità di ripensare a tutto ciò che si è detto sul rapporto uomo-donna.
Nel raccontare la sua storia ha anche sottolineato il profondo pregiudizio nei confronti delle persone di colore che, talvolta, assume anche l’aspetto di un razzismo inconsapevole, quasi bonario.
Ha raccontato di come alcuni uomini si avvicinino a lei dando per scontato che sia una prostituta solo perché non italiana. Per la sua esperienza personale, quanto pesa essere donna e straniera in Italia?
“Questa idea è radicata nella società e sarà difficile da cambiare. Tutto questo parte dalla schiavitù e dalla colonizzazione trasmettendo un’immagine della donna nera come un soggetto dal grande appetito sessuale e sempre disponibile.
Una volta, camminando con due amiche all’Università, una macchina si è avvicinata e l’uomo alla guida disse di volere me perché non aveva ‘mai assaggiato una figa nera’.
Mi sono sentita un oggetto che un uomo può pretendere. Ancora oggi vengo fischiata per strada e ricevo proposte allucinanti.
Anche nei film di recente produzione si continua a presentare la donna nera come iper-sessualizzata e dalle forme esagerate. Il nostro corpo viene usato.
Quello che cerco di fare attraverso il mio lavoro di attivista è anche di desessualizzare il corpo delle donne nere e delle donne in generale. ”
A luglio, a seguito della diffusione di un sextape in Camerun, è nata una mobilitazione sui social contro l’omertà sugli stupri. Com’è la situazione nel paese oggi e cosa si trova ad affrontare la sua associazione?
“Di recente ne hanno diffuso uno su due donne omosessuali ed è stato anche peggio perché l’omosessualità è condannata in Camerun. La mia associazione cerca di fare il massimo ma al momento ci sono problemi a reperire fondi.
Così, spesso, offro sostegno alle donne che hanno subito violenze anche utilizzando i miei risparmi. Di recente abbiamo accolto una ragazza che soffriva di problemi psicologici a seguito di un abuso sessuale per il quale è rimasta incinta.
Da quando è nata la bambina ci occupiamo noi della piccola mentre la madre sta seguendo una terapia psicologica.”
Cosa pensa della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”?
“Io non credo serva se si traduce in uno slogan generico: ’No alla violenza sulle donne’.
Servirebbe, piuttosto, portare in piazza proposte concrete per fermare questo fenomeno, facendo emergere esigenze concrete delle donne vittime di violenza.
Non basta ricordare le violenze che sono già state consumate ma prendere decisioni vere per fronteggiare questa situazione Sono stata invitata alla manifestazione a Roma, ma non credo che andrò senza portare una proposta effettiva.
Il codice rosso per esempio non viene applicato. Le donne scelgono di non denunciare perché credono che se lui vuole ucciderle potrà farlo anche denunciando, così, se hanno dei figli continuano a sopportare.”
La telefonata su Google Meet Imola-Cosenza interrotta di tanto in tanto dai capricci del piccolo Francesco, si chiude.
La chiacchierata con Yvette ci ha arricchito e sorpreso, abbiamo provato a raccontare una storia diversa di chi da anni lotta al fianco delle donne e in prima persona per vedere affermati i propri diritti.
Avvocato, classe 1990, nasce nella provincia cosentina.
Da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle donne in ambito famigliare, è curiosa e dall’animo gentile ed equilibrato grazie alla sua passione per lo yoga, ma è anche incredibilmente impulsiva quando sa che c’è un’avventura ad attenderla.
Da ambientalista, ama e difende fermamente la natura e sogna di correre una maratona.
Appassionata di politica, viaggi, sociologia e yoga.