La banalità del genio: una recensione qualunque a “La febbre dei Petrov e altri accidenti”

"Dopo pile di libri da fast-food e dopo tanti – troppi - romanzi dispensabili che ho fagocitato bulimicamente solo per vomitarli poco dopo in un cesso qualunque come fossero qualcosa di cui non soltanto non avevo bisogno, ma di cui mi dovevo vergognare, stavo finalmente stringendo tra le mani un gioiello autentico, un vero capolavoro."

Per Barbero, il videogenico medievalista baluardo dell’informazione alla portata di tutti, la storia ha un’unica costante: non avere costanti. Se proprio gliene vogliamo concedere una, allora sarebbe questa: l’idea di invadere la Russia è sempre una cattiva idea.

Ecco: io partirò dall’opinione che Barbero ha sulla storia – e che, nel mio piccolo, ho già fatto mia -, ma la riadatterò a un’altra branca del sapere, quella della letteratura.

Sì, perché così com’ è una sciocchezza fare i gradassi nella steppa eurasiatica, è da sciocchi pensare di poter vincere contro un russo – seppur d’adozione – al gioco della letteratura.

E – per citare Nanni Moretti – siccome le parole sono importanti, la locuzione “gioco della letteratura” la si deve prendere e intendere così com’è: alla lettera, perché il gioco – checché se ne pensi e se ne dica – non è affatto una roba da niente e men che meno un vezzo infantile, ma è una forma di disciplina con delle regole.

In alcuni casi, queste regole possono essere insegnate, mentre, in altri, sono le regole stesse a far parte del gioco.

Eppure, in date circostanze, quando ci troviamo di fronte al genio – a quello vero e autentico, senza fronzoli o avversativi – il gioco della letteratura si impara solo tramite l’osservazione, esaminando come ci gioca qualcun altro – il genio, per l’appunto.

Il che significa, per parafrasare Wittgenstein, che noi – i lettori -, da fuori e mai da dentro, possiamo dire che lo scrittore stia giocando seguendo questa o quell’altra regola, perché noi – i lettori – possiamo soltanto ricavare e presumere le regole dalla pratica del gioco.

L’impasse insita in quello che ho appena scritto è evidente anche a occhi poco allenati: il seguire una regola – una di quelle pratiche quotidiane che percepiamo come indiscutibili – si rivela in realtà come qualcosa di stravagante, come qualcosa che è tutto fuorché esente dal taglio netto di una ghigliottina ipotetica, quella dello scetticismo.

E il seguire una regola – reso in questi termini- mina l’architrave stesso su cui si reggono tutte le nostre convinzioni sulla letteratura e sul suo gioco.

È proprio qui – tra il lavoro del filosofo e quello del muratore – che si situa Sal’nikov.

Nel blocco occidentale, di Aleksej Sal’nikov sappiamo poco o niente.

Se lo si googla, si scopre che è estone di nascita – come un altro milione e più di persone –, che ora vive in Russia – nella regione degli Urali – e che, come molti, laggiù, è un biondo naturale con profonde occhiaie rosse e un paio di occhietti ferini.

Qui, nel e dal nostro blocco, che altro sappiamo, di questo Alexey Sal’nikov? Nulla – o quasi.

Perché, nel 2017, quest’uomo dall’aspetto qualunque, che scrive di persone qualunque, ha pubblicato un libro che è tutto fuorché qualunque.

Nel 2017, Aleksej Sal’nikov partorisce un romanzo russo senza restare schiacciato dal glorioso passato della letteratura russa e lo fa in modo magistrale.

“La febbre dei Petrov (non di Bazzi, per carità ndr.) e altri accidenti” (edito da Francesco Brioschi Editore, 2020) è un paradosso dalla prima all’ultima pagina; una bizzarria che logora non solo le fondamenta della letteratura, ma anche e soprattutto quelle della normalità.

Le aspettative abituali che noi lettori ci facciamo su un romanzo, come quello che crediamo essere “La febbre dei Petrov e altri accidenti”, vengono puntualmente deluse dallo stesso Sal’nikov con una precisione da cecchino.

Ci si aspetta che “La febbre” dei Petrov sia uno spaccato- come ce ne sono tanti – sulla vita che si trascina senza slanci lungo le strade innevate di province russe dai nomi impronunciabili, con variazioni di intonazione minime su uno stesso termine: il degrado post-sovietico, che, agli occhi di alcuni, sembra qualcosa di assolutamente estraneo a noi… a noi che vivacchiamo nel nostro, di degrado; nell’imbarbarimento chic del blocco giusto, del blocco sano, del blocco che, dopo quarantaquattro anni di guerre e guerricciole, ha fatto vedere al mondo – petto in fuori e pancia in dentro – che sì, era lui a pisciare più lontano.

Bastano poche pagine, se non, addirittura, una manciata di righi, per capire che definire in questi termini “La febbre dei Petrov e altri accidenti” è un’approssimazione alquanto arronzata e grossolana.

Alla fine del primo capitolo – dopo il primo scossone – mi sono guardata intorno, smarrita, in cerca di una convinzione stabile a cui appigliarmi per non cadere giù, e mi sono chiesta “A che gioco stai giocando, Aleksej? Quali sono le regole?”.

Terminato il quarto capitolo ho capito che c’era qualcosa che non andava, ma non in Sal’nikov né tantomeno nel suo modo di scrivere e di narrare.

Il problema era mio, ero io il bug, vittima come sono del mio approccio alla lettura e del mio rapporto con la letteratura contemporanea che, negli anni, s’è fatto bolso, infiacchito e lacerato a tal punto da frustrarsi del tutto.

Dopo pile di libri da fast-food e dopo tanti – troppi – romanzi dispensabili che ho fagocitato bulimicamente solo per vomitarli poco dopo in un cesso qualunque come fossero qualcosa di cui non soltanto non avevo bisogno, ma di cui mi dovevo vergognare, stavo finalmente stringendo tra le mani un gioiello autentico, un vero capolavoro che – come tutti i capolavori – non pretende di esser tale – o, almeno, non appieno.

Così ho ricominciato d’accapo, spogliandomi dei miei vecchi vestiti, e ho cambiato radicalmente la mia visuale sulla narrazione, defilandomi una volta per tutte dalla pantomima del “caro lettore” di dostoevskiana memoria…perché, per Sal’nikov, io non ero né “caro” né “lettore”, ma un personaggio qualunque della sua storia, indegno di qualsiasi riguardo e a cui poter, quindi, riservare lo stesso trattamento irrispettoso concesso agli altri.

Pur di non svegliare nessuno, sono entrata di soppiatto e in punta di piedi dentro questo sogno (incubo) lucido che è l’universo di Sal’nikov. Mi sono seduta sul filobus proprio di fronte a Petrov; mi sono sbronzata con Igor’ fino all’amnesia; ho spulciato a lungo tra i libri della biblioteca in cui lavora la signora Petrov; ho conservato un paio di lettere di Sergei nella tasca interna del cappotto; ho guardato alla TV in cucina le Tartarughe Ninja con Petrov figlio; alla festa dell’abete, ho fatto il girotondo intorno all’albero addobbato insieme a tutti gli altri bambini e ho aspettato, con ansia nascosta male, l’arrivo di Sneguročka – l’arrivo di Marina – giusto perché congelasse nella sua anche la mia di mano.

Alla fine, a furia di frequentarli, sono stata contagiata dai Petrov e la loro febbre – la febbre di Sal’nikov– è venuta anche a me.

E non potrei esserne più felice.

Anzi, se mai guarirò da questa strana malattia – e ne dubito – sono certa che pretenderò da essa una qualche forma di recrudescenza, di recidiva, di strascico, di scampolo così da non potermi separare mai più dai Petrov.

Nonostante io e, come me, chiunque altr* decida di entrare nella realtà ordita da Sal’nikov, non sia una lettrice in senso stretto, qualcosa da “caro lettore” posso farla anche io.

Dato che un romanzo è sempre una collaborazione, nel mio piccolo, posso cooperare a questo capolavoro, svelando la mia porzione d’altro. Mi spiego meglio: l’altro, in un romanzo, è tutto quello che il suo autore c’ha messo dentro senza saperlo. Premettere una spiegazione equivale a limitarne il senso, perché, se sappiamo cosa vogliamo dire, non sappiamo se non diciamo altro. Gide definisce questo “altro” come la parte di Dio e ogni romanzo, anche il più scadente, ha uno spazio riservato esclusivamente a Dio.

Ne “La febbre dei Petrov e altri accidenti” la parte di Dio sta in un aspetto che a primo acchito passa in sordina: Sal’nikov ci svela, pagina dopo pagina, che la genialità non va cercata per forza nella straordinarietà, ma può essere trovata anche in un’ordinarietà – per quanto stressata e abusata – e nell’orrore senza sconti di una normalità che Sal’nikov espande fino al parossismo, fino al punto di rottura oltre al quale la vita cessa perché viva la letteratura – qualunque cosa questo voglia dire.

Sal’nikov con la sua febbre, che mi ha contagiata e da cui non voglio più guarire, dimostra ai professori della letteratura che, per quanto assurdo e paradossale possa sembrare, anche il genio – così come il male – può essere banale.

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