Stamani ho bevuto il mio caffè, come al solito. Ho preso la tazzina con le mie stesse mani, quelle che almeno una volta al mese porto dalla mia fidata estetista.
Quelle che, in questo momento, battono con ferocia ed urgenza sulla tastiera.
E se mio padre, quello che, appena nata, mi ha tenuta in braccio e mi ha altresì accudita per ventisette anni, avesse assoldato un “picchiatore” per spezzarmele?
Per me è solo un folle incubo, per un chirurgo di Torino è invece un’insopportabile realtà.
In data odierna, le principali testate giornalistiche hanno divulgato la notizia di un noto chirurgo torinese giunto alla fine di un incubo, iniziato nel lontano 2017: il padre 75enne del professionista ha infatti patteggiato due anni di carcere per lesioni aggravate e stalking innanzi al gup del Tribunale di Torino Ludovico Morello. Per quale motivo un uomo in pensione, esso stesso professionista, avrebbe voluto spezzare le mani del figlio, direte voi. Di cosa si sarà mai macchiato questo 40enne, vi starete chiedendo, per spingere l’anziano padre a compiere un gesto talmente sconsiderato. Cosa avrà mai fatto questo chirurgo tanto da meritare una pena così atroce, vi sento domandare.
Ebbene: nel 2016 ha dichiarato la propria omosessualità a tutta la famiglia. Non sembravano averla presa particolarmente male, anzi. Peccato che nel 2017 siano poi uscite delle foto che ritraevano il figlio insieme ad un noto attore. Ecco quindi l’onta: finché si tratta di lavare i panni sporchi in casa, nessun problema. Questione ben diversa è se la “vergogna” viene resa pubblica. Proprio quell’episodio scatena una serie infinita di violenze, perpetrate ai danni del figlio, del compagno del figlio, nonché della moglie e madre della vittima, la quale ben decise di separarsi dopo più di quarant’anni di matrimonio.
Un crescendo di odio, di livore, di brutalità che annovera, tra le altre, l’aver ingaggiato un “picchiatore” per spezzare le mani del figlio omosessuale. Quelle mani che a tutti servono ma che, per un chirurgo, divengono elemento imprescindibile della professione. Un atto così aberrante da aver spinto lo stesso picchiatore ad avvertire il professionista torinese in merito alle intenzioni del padre. Un atto talmente vile da spingere un mercenario a “denunciare” il suo stesso mandante.
Proprio da questo parte il mio personalissimo “j’accuse“, nonostante io sia lontana intere leghe dalla grandezza di Zola.
J’accuse un padre che non può dirsi padre e con lui tutti i padri che non meritano questo appellativo. E le madri, le mogli, i mariti, i figli, i fratelli, le sorelle e gli amici che deliberatamente decidono di disporre della vita, del futuro di una persona solo perché non collima con i ristretti confini di un mondo vetusto, che puzza di naftalina e di acqua di colonia scadente; che puzza dell’ipocrisia di chi, nottetempo, venera la suburra e, all’alba, idolatra la famiglia tradizionale.
Non posso chiamare padre, non si può chiamare padre, un uomo che ha pianificato una vendetta così totalizzante. Una vendetta che, poi, non era neanche vendetta ché non c’era nulla da vendicare; non l’onore, non l’ego, non la facciata. Nulla. Non posso chiamare padre, non si può chiamare padre, un uomo che voleva “farla pagare” al figlio per il sol fatto di amare, poco importa che si trattasse di un uomo o di una donna.
Non posso chiamare padre, non si può chiamare padre, una persona così lucida nel suo intento da puntare a distruggere non solo la psiche del suo stesso seme ma finanche la carriera: non c’è nulla di più vigliacco del voler rompere le mani di un chirurgo, come i piedi di una ballerina o la faccia di una modella. È l’atto sadico di chi rivendica un possesso che non ha. Una proprietà, come se un essere umano potesse mai essere di proprietà di qualcuno.
J’accuse la stampa stessa. Perché? Perché digitando su internet ho trovato sottolineata, a più riprese, la nazionalità del “picchiatore”. Oh certo, tutti a prodigarsi in merito all’integrità di quest’ultimo. Ebbene: era allora così essenziale rimarcare, ogni sacrosanta volta, il Paese di provenienza? Era strettamente strumentale alla “corretta informazione”? No, non lo era. Ma ancora siamo fermi a questo.
Siamo impantanati nelle varie forme di violenza che diciamo di denunciare ché, se non siamo omofobi, ci riscopriamo razzisti; ché, se non siamo razzisti, ci riscopriamo ad “avere un sacco di amici gay, ma…”; ché, se non siamo né omofobi né razzisti, “le donne non devono vestirsi scollate”. Come se, per una strana bilancia tarata sul vuoto a perdere, dovessimo compensare ogni forma di apertura con una forma di chiusura.
Ma, hey, sui giornali c’era scritto ovunque come il picchiatore, straniero, avesse sventato l’aggressione.
Gran cosa il “nonostante tutto”.
Nonostante fosse straniero, si è dimostrato una “brava persona”. Nonostante fosse un “mercenario”, si è dimostrato un brav’uomo. Lasciate che vi dica un’altra cosa: non è una “brava persona”. Un uomo, quale che sia la sua nazionalità, non è una “brava persona” se prende soldi per picchiare e aggredire altre persone. Al più, ha avuto un ripensamento, come l’Innominato di manzoniana memoria. Nulla di più, nulla di meno.
Infine, j’accuse la mia sposa: madame Giustizia. Da giurista credo che i due anni del patteggiamento siano un ottimo approdo, considerati i permeanti cavilli cui siamo abituati. Da persona, invece, la ritengo una pena fin troppo clemente.
La Giustizia non si nutre di pene, si nutre di cultura. Per questo è essenziale educare ed educarci al rispetto dell’altro. Per questo la Giustizia rinuncia alla vista per donare i suoi occhi alla scuola, alle famiglie, ai mass media affinché questi pilastri della società vedano là dove Lei è cieca. Nella scuola, nelle famiglie e tramite i mass media deve essere coltivata la comprensione dell’altro perché l’indifferenza ci sta uccidendo. Tutti.
Perché «homo sum, humani nihil a me alienum puto».
«Quanto alla gente che j’accuse, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio.
Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia.
Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Io aspetto.»
(Émile Zola, 13 gennaio 1898 , “J’accuse – Lettre au Président de la République”, L’Aurore)
Ad un giuramento dall’essere avvocato, classe 1993, romana D.O.C.
Laureata in Giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli con votazione 110/110, specializzata in Diritto del Lavoro e Responsabilità Professionale, parla fluentemente inglese a livello C1 grazie ad una parentesi di studio presso il Griffith College di Dublino.
Collaboratrice del Quotidiano del Sud dal 2019 e Vicedirettore di“Iuris Prudentes”.
Appassionata di pittura, lettura, psichiatria e shopping!