“Io non amo gli uomini. Amo ciò che li divora”.
(André Gide, Prometeo male incatenato in Prometeo, Variazioni sul Mito)
Che cos’è che divora l’uomo? La sete di potere? Il denaro? Un altro uomo? O forse l’uomo è capace di divorare sé stesso?
Gettando uno sguardo sul presente in cui siamo immersi, a me pare che l’ultima risposta possa provare a contenere tutte le altre. L’uomo del nostro tempo divora sé stesso attraverso il suo costante, insopprimibile, desiderio.
Nella società dei consumi, noi siamo esseri desideranti per definizione, consumatori dei nostri stessi desideri.
Ci consumiamo per consumare. Desideriamo il prossimo smartphone, il prossimo viaggio, la prossima relazione. E appena esaudito il primo desiderio, siamo già pronti a focalizzarci sul prossimo, in una corsa metaforica con noi stessi che sappiamo già di non poter vincere.
Desideriamo sempre di più e sempre altro di diverso rispetto a quello che c’è già. Chiunque di noi almeno una volta nella vita è finito succube del proprio desiderio.
Ma il desiderio è di per sé qualcosa di negativo, qualcosa da dover tenere alla larga per poter vivere bene? No. Il desiderio è l’essenza più profonda della libertà interiore dell’uomo. E proprio per questo non può non essere ambiguo. Troppo spesso sottovalutiamo il potere dell’ambiguità, lo demonizziamo. Ma questa non è altro che la possibilità d’indeterminatezza dell’essere umano, appunto, della sua libertà. Questa forma di energia libera, indeterminata ma determinabile, Spinoza la definiva “conatus essendi”, ossia la volontà di esistere, di esserci: niente di più vicino al desiderio. Non possiamo quindi rifiutarci di desiderare, perché questo impulso fa parte della nostra natura dal momento stesso in cui veniamo al mondo.
Ci sono allora due modi di accostarci al nostro desiderio: subendolo o educandolo. Per riuscire nel secondo tentativo dobbiamo fare spazio alla nostra coscienza morale. La coscienza può essere intesa, in parole molto semplici, come autoconsapevolezza di noi stessi, quell’enorme centro di elaborazione senso-cognitiva attraverso cui arriviamo a definirci: “io sono” o, al contrario, “io non sono”.
Come ci poniamo di fronte a questo desiderio anonimo, che non è desiderio di questa o quella cosa, ma è desiderio di esistere, è volontà di potenza per dirla con Aristotele? Per giungere alla risposta bisogna richiamare qualche centinaio di anni di storia della filosofia.
Oggi si tessono le lodi del desiderio, guai ad esortare un nato dei nostri giorni a desiderare di meno. Eppure gran parte del pensiero di cui siamo figli/e affonda le radici in una tradizione culturale quasi completamente avversa al concetto di desiderio. Esemplificativo, a questo proposito, è un aneddoto attribuito a Socrate, il quale durante un’abituale passeggiata al mercato di Atene, immerso nelle bancarelle, esclamò: “Oh, di quante cose che non ho bisogno”. Il saggio è parsimonioso, lo stolto vuole sempre di più.
Ancora, Epittèto, esponente dello stoicismo, sosteneva “devi estinguere del tutto il tuo desiderio”, o ancora, la regola di San Benedetto: “quanto alla volontà propria sappiamo che ci è proibito compierla, infatti la scrittura dice non seguire i tuoi desideri”. Queste parole sono la base di tutta la spiritualità monastica dell’Occidente. È la tradizione maggioritaria della nostra cultura antica poiché l’idea fondante è che se tu sei preda del tuo desiderio, il baricentro è fuori di te; se invece il desiderio si controlla in modo tale da estinguerlo, allora il baricentro è interno a te e si è unificati.
La distanza con i nostri tempi è evidentemente abissale. Parliamo in questo caso di un eccesso al contrario, del rischio di suscitare una mortificazione del proprio io, la conformazione a ciò che è o che deve essere. Ma non è tutto da buttare.
Anche nella glorificazione del desiderio a cui assistiamo nella nostra epoca i rischi sono tanti e non fanno meno paura: soggettivismo, relativismo, narcisismo. Perché? Perché non siamo capaci di educare il nostro desiderio.
Questa “indisciplina” del conatus essendi fa sì che esistano soggetti che si reputano fini a sé stessi. Nessun bene comune, nessuna idea più grande verso cui tendere, ma solo il proprio ego. I nostri desideri non fuoriescono dal perimetro del nostro ego: IO=IO.
Ma il desiderio, se a questo guardiamo in senso spinoziano come “impulso ad esistere”, può essere inteso solo come motore, non come la meta.
Uno dei maggiori pensatori morali dei nostri tempi, Jonathan Sacks, nel libro “Moralità. Ristabilire il bene comune in tempi di divisioni” compie una vera e propria radiografia dell’attualità e scrive: “Tutto avrà nome potere e il potere volontà e la volontà desiderio. E il desiderio lupo universale, assecondato doppiamente dalla volontà e dal potere, farà dell’intero universo la sua preda per poi, alla fine, divorare sé stesso”.
Nel testo originale, l’autore usa il termine “appetite” per dire “desiderio”. Anche Spinoza, nell’Etica, usa il vocabolo appetito, ma lo fa distinguendolo dal desiderio: quest’ultimo è l’appetito consapevole (sai che cosa vuoi), mentre l’appetito è anonimo, è il conatus essendi che abbiamo identificato, per l’appunto, come forma anonima e primordiale di desiderio.
Dentro ognuno di noi, quindi, c’è un lupo universale che vuole divorare tutto, e che, divorando tutto, finisce per divorare sé stesso. Eternamente insoddisfatti, eternamente infelici.
Ma allora siamo predestinati al male? All’autodistruzione? Troppo facile credere in un dogma antropologico di questo tipo.
È chiaro tuttavia che ci troviamo di fronte ad un paradosso, forse IL paradosso della nostra esistenza: non bisogna farsi divorare dal lupo, ma non bisogna neanche ucciderlo. Come far coesistere la lezione del passato con quella del presente? Ancora una volta, a darci la risposta è proprio Spinoza.
Secondo il filosofo “ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere”. Il desiderio, come già più volte asserito, è l’essenza stessa del vivente: “cupiditas est ipsa ominis essentia”. Che cosa fa Spinoza per fare i conti con questa realtà?
Nell’ultima parte dell’Etica si rifà all’amore intellettuale verso Dio, che non ha nulla a che vedere con il Dio Cristiano o il Dio Ebraico. È un altro modo di intendere Dio, forse l’unico che riconosco. È l’emblema di qualcosa di più alto di noi e a cui indirizzare il nostro desiderio. “Questo amore verso Dio deve occupare la mente in sommo grado”. Noi, al contrario, siamo la società dell’amor mei, dell’amore che confina con sé stessi.
Cosa vuol dire allora educare il desiderio? Vuol dire restare fedeli alla nostra essenza, capendo che il lupo universale che c’è dentro di noi deve lavorare in funzione di qualcosa di più grande di lui. Non l’amor mei, ma l’amor Dei, declinabile nel modo che più si confà alla vostra anima: amor veritas, amor iustitia, amor bonum, amor vitae. Rispetto per la vita.
La nostra mente, la nostra coscienza, può essere rivolta a qualcosa di più grande di sé, capace di far inchinare il lupo che è dentro ciascuno di noi. Il nostro ego può essere sconfitto, può desiderare altro da sé.
E allora possiamo recuperare perfino il significato etimologico della parola desiderio: de-sidus, letteralmente “mancanza di stelle”. Nostalgia dell’assoluto. Ma a quell’assoluto l’uomo deve necessariamente tornare per arrestare la corsa dell’anima.
Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là».
E. Montale, Maestrale, da Ossi di Seppia, 1925

Scorpione nell’anima, classe 1996, nasce a Cosenza e atterra a Torino.
Specializzata in Scienze del Governo, curiosa del genere umano e di tutto ciò che è cultura, studiosa dei fenomeni di mutamento politico ed economico-sociale in una prospettiva multidisciplinare, aborra l’autoreferenzialità del sapere, il qualunquismo, e le questioni che non vengono analizzate a dovere.
Pallavolista a livello agonistico, aspira a diventare docente universitaria e giornalista.
Appassionata di filosofia politica, dibattito, sport, viaggi e mondo viticolo… per diventare presto sommelier!