Febbraio è un mese che non m’è mai piaciuto.
E, sia chiaro, – il secondo tra i secondi – l’ho sempre detestato… anche in tempi non sospetti, anche prima che una TAC mi ricordasse, con qualche linfadenopatia di troppo, che la mia vita era di nuovo appesa a un filo.
«Ci risiamo.» mi sono detta, sconfortata, mentre mia madre mi piangeva addosso con la faccia premuta su una spalla.
Lì per lì, mi sono limitata ad accarezzarle la testa e, dopo un breve intermezzo di urente disperazione, ho afferrato con la destra il telefono che penzolava tra le dita flosce di mia madre.
Dall’altra parte, uno specializzando con la voce spezzata salmodiava delle scuse.
«Mi dispiace avervelo comunicato così.» ripeteva come un disco rotto.
«Cosa mi aspetta? Una terapia di salvataggio? Un trapianto? Cosa?» gli ho chiesto, poi, col mio solito piglio.
Qualche istante di silenzio – non poteva credere che una ragazzetta di venticinque anni reagisse così alla notizia di una recidiva.
Non appena, però, s’è ripreso quel tanto che basta per smozzicare altro oltre a delle scuse, mi ha spiegato che sì, avremmo lavorato per un autologo.
«La gente non sa mai che cavolo dirti…» mi ha confessato, una volta, uno dei medici dell’ottavo piano. Quella mattina, mi ero svegliata con la febbre a 40, con i neutrofili arrancanti e con un’emoglobina che più che una presenza stabile, nel mio sangue, faceva, ogni tanto, – se le andava – qualche comparsata.
Eppure, nonostante fossi un relitto ancorato alla vita solo grazie a dei deflussori, tenevo banco e chiacchieravo, con un termometro elettronico stretto nell’incavo dell’ascella.
«Sei sconcertante – rise appena, penetrandomi col suo sguardo di un bel verde mare – fai tutto da sola.»
Il che, ovviamente, non era vero, anche se, col tempo, a furia di dai e dai e calci in culo, ho imparato ad autogestirmi e a disimpantanarmi da sola dai guadi.
Due pregi utilissimi se si tiene conto che, in tre anni, ho dovuto tenere a bada un linfoma e una recidiva di un tumore che – a torto – credevo in me del tutto estinto.
D’altronde, ai tempi, pensavo che, se qualcosa è in grado di sopravvivere a sei mesi di polichemioterapia e a quattordici giorni di radio, è certamente una brutta bestia – ma brutta sul serio.
Ed, effettivamente, sì: quel maledetto 26 febbraio, ho capito, a mie spese, che il mio linfoma è un bastardo di prima categoria, e che neppure nella malattia riuscivo a rientrare nella fetta più grande dei diagrammi a torta (il rischio di recidivare un linfoma di Hodgkin, dopo due PET pulite, è pari a circa il 20% dei casi, ndr.).
Questo per dirvi che ho tutte le ragioni di questo e dell’altro mondo per detestare febbraio, anche se ha dato i natali a Bernhard e anche se il 4 – ovvero oggi – ricorre la giornata mondiale, promossa dall’OMS, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul cancro.
Per darvi prontezza di quanto i tumori siano un problema sociale, che travalica l’esistenza individuale, tirandoci in mezzo tutt* più o meno indirettamente, ogni giorno, solo in Italia, più di mille persone scoprono di avere un tumore.
Questo vuol dire – né più né meno – che, all’anno, quasi quattrocentomila individui (quota che, tra l’altro, non tiene neanche conto dei tumori cutanei diversi dal melanoma, ndr.) su poco meno di sessanta milioni di abitanti è affetto da un cancro.
Si è stimato che, nell’arco della propria vita, qui, nel nostro Paese, un uomo su due e una donna su tre incorrono in una neoplasia.
Inoltre, mi preme specificare che, accanto a chi il cancro lo vive sulla e sotto la propria pelle, ci sono frotte e frotte di famigliari e di amici, stretti attorno al malato, che vivono la malattia di riflesso… e, v’assicuro, tastare con mano il dolore di chi si ama, con la consapevolezza di non poterle/gli offrire alcuna via di fuga, è uno strazio peggiore della morte.
Bene, sulla scorta di quello che ho detto, vi propongo un gioco: chiudete gli occhi e ampliate nella vostra testa i dati che ho riportato, in modo da abbracciare tutta la popolazione mondiale.
Fatto? Okay: ora avete un’idea dell’impatto del cancro sulla vita delle persone anche a livello globale.
Beh, direi che fingere che il problema non esista sia alquanto sciocco, non vi pare?
Ecco perché una giornata come quella di oggi è così importante.
Parlare apertamente e senza schermi dei propri calvari è un dovere. Testimoniare le proprie piccole battaglie e vittorie quotidiane e informare sull’importanza della prevenzione e della ricerca sono sì compiti onerosi, ma che consentono a tutt* quant* noi di salvarci sia dall’ignoranza che dalla paura.
Per dirla fuori dai denti, fino a poco – pochissimo – tempo fa, io (paziente oncologica con recidiva precoce, ndr.) sarei morta grossomodo da un anno.
Ma, per mia – nostra – fortuna, la ricerca scientifica è una vera e propria maratoneta dotata di una forza strabiliante. Così mi ha caricata su una spalla e mi ha portata lontano, anche quando io non avevo la forza di muovere neanche un muscolo.
Proprio per questo motivo, in una giornata così importante non solo per noi malat* e per la comunità scientifica, ma anche per tutt* quant* voi, ho deciso di raccontarvi due storie, oltre alla mia.
Credo che, in certi ambiti, le esperienze siano più esplicative e d’impatto di liste infinite di numeri e dati statistici.
Quindi, eccoci qui: vi presento chi sono i malati oncologici.
M.
M., attaccato al viso, ha un paio di occhi minuscoli.
Quando ha su la mascherina, non lo si nota, ma, quando l’abbassa, sì.
La prima volta, che l’ho vista, li ho notati subito, i suoi occhi minuscoli.
Ai tempi, l’FFP2 era solo una sigla sconosciuta a tanti e non una protezione necessaria a tutti.
Ecco perché, quel giorno, sulle labbra e sul naso, M. aveva solo una mascherina chirurgica… poca roba, insomma, che del suo viso faceva intravedere più di quanto nascondesse.
La mattina in cui l’ho conosciuta, più che occhi, quelli di M., erano due fessure, un paio di tagli scuri al centro esatto di due edemi.
Chissà quanto li avrà sfregati, mi sono detta, chissà quanto avrà pianto.
Stretta nel suo giubbotto beige se ne stava raggomitolata su una sedia sgangherata in sala d’attesa. Tra le dita, un numero a due cifre stampato in nero su un foglietto stropicciato.
«Tutto bene?» le chiedo.
Dio, che domanda cretina: lo si capiva subito, dal modo in cui tremava, che non andava affatto tutto bene… ma, in qualche modo, dovevo pur cominciare, no?
«È la mia prima – esita – un linfoma di Hocking.»
“Hodgkin” lo pronuncia male, ma lascio correre, la lascio fare. È tesissima e, dalla sua voce, è evidente, anche ad orecchie poco allenate, un’ansia latente che le annoda la lingua e le tortura le mani.
«Ah, anche Lei una ragazza di Hodgkin.» le sorrido, ma M. fa fatica a ricambiare ed io non insisto.
«Ragazza… ho più di quarant’anni.» mi spiega, sforzandosi di non piangere.
Da un altoparlante, una voce monotonale pronuncia sia il mio che il suo numero.
«Su, andiamo. Oggi viene in stanza con me.» le dico, tendendole la mano.
Una volta in piedi, mi s’è attaccata al braccio e, finché ha potuto, non lo ha mollato. Mi ha lasciata soltanto quando, di forza, un OSS l’ha costretta su una poltrona blu di fronte alla mia.
Solo da quel momento, nel confessionale in stanza 4, sedute in mezzo ad altri pazienti, abbiamo incominciato a parlare.
Mi ha raccontato del suo bambino, mi ha subissata di domande, mi ha chiesto cosa si provi ad avere l’ABVD in corpo… poi, mi ha detto dei suoi capelli biondi e di quanto le facesse paura pensare che le sarebbero caduti.
È spaventata, eppure, più andiamo avanti con la nostra conversazione, più la patina liquida sui suoi occhi si fa meno densa e, dopo un po’ che chiacchieriamo, comincia a tranquillizzarsi.
«Lo sa che è già a tre quarti della terapia?» le faccio notare con un cenno del capo, appena l’infermiera si allontana da lei con in mano la siringa della vinblastina vuota.
M. sgrana gli occhi – fino a quel momento, non credevo potesse aprirli così tanto.
«Non me ne sono accorta!»
«Eh, è stata fortunata ad aver trovato Augusta. È sempre tranquilla, lei.» specifica l’infermiera. Scoppiamo a ridere… sì, scoppia a ridere persino M., che la sera prima aveva pianto a dirotto, dopo aver visto una gocciolina di sangue colare, timida, dal buchino lasciatole sul ventre dall’ago di una siringa preriempita di eparina.
Invece, ora ride, tranquilla, insieme a me, che le racconto, scanzonata, aneddoti sulle mie giornate in Istituito e le anticipo quanto a breve, nonostante le ossa rotte e i marchi sulla pelle, sarà grata a quei maledettissimi farmaci.
«Adesso sono più serena, grazie. Chissà se un giorno sarò coraggiosa come te.»
«Lo è già… molto più di quanto crede.»
Prima di lasciarci, le accarezzo con lo sguardo il viso che si fa via via sempre meno contratto.
Ci salutiamo con un timido cenno della mano e con la promessa che non ci saremmo mai lasciate sopraffare dalle nostre rispettive disperazioni.
M. ha reagito bene alle terapie (ABVD e radioterapia) e, da circa due anni, la sua malattia è in remissione completa. Per dirsi guarita, bisognerà aspettare altri tre anni.
Altro tempo
Si imparano molte cose sull’umanità, seduti nelle sale d’attesa di un ospedale oncologico.
Nei non-luoghi, appena fuori dagli ambulatori, la vita trattiene il fiato e, per sopperire a mancanze alterne e ripetute, si diventa tutti amici.
Nelle sale prelievi, come in nessun altro posto al mondo, si capisce quanto sia azzeccato il termine “paziente” per definirci.
Si aspetta per un lasso di tempo interminabile che appaia il proprio numero su uno schermo a LED e intanto si chiacchiera del più e del meno.
L’argomento di punta dipende dai giorni e dall’umore del momento.
Così, alla signora senza nome, che ride come una ragazza, racconto della mia recidiva, delle mie staminali e di come ormai, da due anni, spartisca a fette spesse la mia vita con un linfoma.
Sono rilassata e lo è anche lei.
«Il mio cancro, invece, non ha una cura… lo stiamo arginando con dei palliativi. È un tumore molto raro. – mi dice con una calma che mi strappa dal cuore un battito – Mi avanza qualche anno, forse due. Chi lo sa? – sorride – A me basta che mi diano altro tempo. La medicina fa passi da gigante.».
Nei pochi minuti, che abbiamo trascorso insieme, la signora senza nome, che ride come una ragazza, non mi parla della sua convivenza con la morte, ma della sua fiducia nella medicina.
«Forse ti sembrerò un po’ sciocca, ma io ci credo.» mi dice, tingendosi di imbarazzo.
«No, non è sciocca: è speranzosa e un po’ di speranza non ha mai fatto male a nessuno. Bisogna avere fiducia nelle cose giuste.»
Sorrido.
Sorride.
È il mio turno.
Nella fretta, non le chiedo neppure il nome.
Le lancio un ultimo sguardo bisognoso.
Spero di risentire presto la sua risata da ragazza.
“Tumore raro” è un termine generico che indica tutte quelle neoplasie (i ricercatori del Surveillance of rare cancers in Europe ne hanno individuati più di 250 tipi diversi, ndr.) che colpiscono meno di 6 persone su 100.000 per anno. La ricerca sui tumori rari è, ad oggi, molto difficile proprio per i numeri esigui dei dati che possono essere raccolti. Questo vuol dire che è più complesso arrivare a risultati attendibili. L’obiettivo di chi fa ricerca in questa particolare branca dell’oncologia è di identificare i meccanismi molecolari alla loro base, così da poterli contrastare o con farmaci che esistono già o da poterne progettare di nuovi.
Nata a Cosenza alla fine del 1994, trapiantata a Milano da diversi anni.
Laureata in Filosofia e specializzata in Scienze Filosofiche, esperta di Rivoluzione Francese e vincitrice di numerosi premi letterari, ha collaborato a soli 19 anni ad una nuova traduzione di un’opera di Kant, è un’accanita sostenitrice della ricerca contro i tumori e attualmente si occupa di risorse umane e della stesura del suo primo romanzo.
Appassionata di storia, scrittura, letteratura e fotografia!