Per chi non lo conosca, il Cerbero Podcast è un format di opinione e intrattenimento tra i più seguiti su Twitch, la piattaforma che sta prendendo sempre più piede sul web, divorando a ritmo serrato il pubblico di YouTube. Da questo punto di vista, Davide (Mr. Marra), Simone (Tutubbi) e Gianluca (Mr. Flame) sono stati dei pionieri, importando già nel 2018 in Italia l’impostazione podcast all’americana, ossia quel format di intrattenimento che ci è divenuto tanto caro in epoca Covid-19.
Sul loro canale parlano, discutono e dibattono di tutto: razzismo, femminismo, temi sociali, cancel culture e ogni altro argomento al centro del dibattito pubblico. Queste tre personalità così diverse – che unite danno vita in formato digitale all’animale mitologico del Cerbero – dividono il dibattito: o li si ama, o li si odia, ma è difficile rimanere indifferenti.
Oggi, a raccontarci la loro esperienza, saranno direttamente loro.
Di recente vi siete fatti promotori del #nostreamday redigendo, insieme ad altri streamer, il “Manifesto degli streamer“, sottoscritto, peraltro, pure da personalità come Fedez. Quali sono le richieste concrete che fate alle piattaforme di streaming?
“Ciò che chiediamo è, semplicemente, chiarezza e certezza nell’applicazione delle regole che riguardano i contenuti, la libertà di espressione e le sanzioni ai creator. Essendoci un vero e proprio vuoto normativo, queste regole vengono applicate in maniera totalmente discrezionale dalle piattaforme, e a fronte di ciò i creatori di contenuti sono del tutto privi di tutele, perfino del diritto di replica. Ormai il mondo del web è un lavoro per molti: noi abbiamo aperto una società e paghiamo regolarmente le tasse come qualunque altro professionista, ma non godiamo delle stesse tutele dal punto di vista lavorativo. Se la piattaforma banna (sospende per un periodo di tempo determinato/indeterminato, n.d.r.) un creator, spesso, quella persona non può fare assolutamente nulla, se non aprire un lunghissimo contenzioso legale. D’altra parte, si tratta di regole che si applicano a tutti quei professionisti che lavorano con l’informazione o lo spettacolo, solo che il legislatore è ancora disinteressato a questi temi, nonostante il web stia diventando uno spazio di lavoro sempre più reale.”
La regolamentazione che chiedete a Twitch, secondo voi, dovrebbe essere improntata a tutelare la piattaforma affidando agli streamer una responsabilità sui contenuti proposti o dovrebbe mirare a lasciare un maggior spazio di manovra al creator?
“Su queste piattaforme, il problema principale in termini di contenuti è che, proprio per la grande mole di utenti, il controllo degli stessi è affidato ai bot; questo, però, porta a delle clamorose disparità di trattamento, che il più delle volte è involontario. Come quando, ad esempio, bannano un capezzolo nell’immagine di un dipinto e lasciano allo stesso tempo intoccata una pagina filonazista. Su Twitch, invece, la disparità di trattamento è volontaria, in quanto il controllo è manuale e in mancanza di regole chiare e certe questo dà luogo ad abusi, ingiustizie e anche danni economici. Fra l’altro Twitch è passata dall’essere una piattaforma di gaming a una dove è sempre più in aumento l’intrattenimento di opinione; nonostante l’aumento dei creator, il numero dei moderatori rimane ancora molto basso, quindi c’è un’evidente difficoltà nella gestione di queste situazioni.
Proprio per questo noi abbiamo proposto di aumentare il numero dei moderatori o di applicare il controllo tramite bot, ma dando ampio spazio di replica in caso di ban e il diritto al rimborso in caso di errore della piattaforma. Questo perché ogni volta che un creator subisce un ban, si incorre in una perdita significativa in termini economici. Di recente siamo stati bannati per 24 ore per un errore palese: abbiamo mostrato la pagina di wikipedia alla voce “uomo” dove compariva l’immagine anatomica del corpo maschile e siamo stati censurati per “nudità”; nonostante la frettolosa riammissione, abbiamo comunque avuto una perdita significativa per un errore – riconosciuto dalla stessa piattaforma – a cui non è corrisposto, però, un diritto al rimborso da parte di chi ha subito il torto. Cosa sarebbe accaduto se la piattaforma, “per errore”, ci avesse bannato per un mese? Per noi è un lavoro a tutti gli effetti: sarebbe come perdere ingiustamente la remunerazione di una giornata di stipendio.”
Rispetto alle altre piattaforme, come Facebook, Twitter e Instagram, in occasione del ban di Trump, avete mosso delle critiche rispetto alla mancanza di una “preventiva regolamentazione”. Quali sono i contenuti che secondo voi possono compromettere maggiormente la libertà di opinione? E come dovrebbero muoversi, da questo punto di vista, le piattaforme?
“Non è un tema semplice da affrontare. Anche il caso di Trump è stato esemplare: da un lato, era il capo politico di un partito che usava uno strumento come Twitter come mezzo di divulgazione, dall’altro ha effettivamente incitato le persone a quelle drammatiche azioni che abbiamo visto compiersi a Capitol Hill. Il problema, anche rispetto ai fatti Twitter e Trump, è la mancanza di una preventiva, chiara e certa regolamentazione dei contenuti. Bisogna pensare, poi, che la questione è che si tratta sempre di piattaforme che agiscono su scala mondiale e le offese alla libertà altrui sono interpretate diversamente in base al contesto culturale a cui ci si riferisce.
Proprio per questo, le piattaforme, nel dubbio, tendono ad adottare sempre più politiche restrittive, ma questo è molto grave perché espone milioni di persone che lavorano come noi a rischio. Altro esempio: lo scorso mese siamo stati bannati da YouTube perché nel titolo di un nostro video riportavamo virgolettato “Il vaccino per il Covid è stato creato da Satana”, citando le parole di un evangelista che poi nel video criticavamo aspramente. Questa è una logica priva di senso.”
Dalle recenti vicende che hanno coinvolto il Cerbero è nata una discussione con il direttore di “Domani”, Stefano Feltri. Durante la live di confronto, ciò che è emerso è soprattutto una barriera di comunicazione e di visione della realtà tra due generazioni a confronto. Come credi si possa colmare questa frattura?
“Il fatto che la generazione precedente non capisca quella successiva è una costante storica. È sempre stato così. Nel caso specifico di Feltri è successo questo, ma, allo stesso tempo, c’è stata una precisa volontà di non tentare di entrare in un dibattito che potesse tenere in considerazione l’interlocutore: è venuto per ribadire le sue posizioni, ma a quel punto non c’era possibilità di trovare un punto di incontro. Secondo noi aveva fatto semplicemente una pessima figura rispetto alla gestione dell’intervista fattaci sul giornale di cui è direttore – questo perché evidentemente non ci conosceva – per poi cercare di tamponare successivamente anche nei nostri confronti.
Quel che è stato evidente è che lui sia ben inserito in quel contesto di politicamente corretto, di perbenismo intellettuale, che ti porta a negare che anche giuste cause possano avere delle distorsioni estremiste, come nel caso del femminismo tossico, sebbene oramai siano socialmente accettate; e l’uscita del libro “Odio gli uomini” ne è un esempio eclatante. Se sei un giornalista e ignori il mondo del web, che rappresenta lo specchio della contemporaneità, è un problema che non mi riguarda.”

Spesso vi trovate a parlare di polarizzazione delle posizioni durante le vostre live. Quali sono le vostre preoccupazioni e quali credete siano i rischi della comunicazione digitale?
“I social da sempre rappresentano la ricerca di un miglioramento della nostra immagine nei confronti degli altri: noi creiamo degli avatar per sembrare perfetti, mostrando agli altri la migliore versione di noi stessi. Il problema è che questa tendenza applicata a determinati ambiti, come quelli relativi all’opinione, è molto dannosa: si agisce nel segno di uno “scagli la pietra chi è senza peccato”, e sui social sono tutti senza peccato, ovviamente. Questo però comporta che per entrare in quell’aurea di perfezione e correttezza perbenista, siamo tutti portati a condannare con una violenza inaudita chiunque dica anche una minima scorrettezza, pure quando ci si trova in un contesto di humor.
Ne è un esempio quello che è successo su scala mondiale con pellicole, serie tv, attori e registi che sono stati distrutti mediaticamente per uscite di questo genere. Ci troveremo tutti ad aver paura di essere giudicati dalla gogna pubblica dei “non peccatori”, e tutto quanto diventerà terribilmente piatto. Sia chiaro, il fatto che alcuni termini – tipo “ne*ro” -siano stati eliminati dal linguaggio comune grazie al politicamente corretto rappresenta assolutamente un bene. Estremizzare atteggiamenti di ipercontrollo, però, è altrettanto grave: se prima di fare una battuta devo giustificarmi migliaia di volte, facendo una miriade di premesse, pur quando evidentemente il tono è ilare, preferisco non parlare proprio, perché qualunque cosa uno dica finirà per essere frainteso ed emergerà solo quell’aspetto negativo a dispetto del resto. Ci troviamo a fare continuamente postille e video di risposta rispetto a chi prende frammenti di nostre live originariamente lunghe 3 ore e che, quindi, decontestualizza qualunque cosa diciamo. Questo atteggiamento sta diventando sempre più problematico e temiamo che si arriverà al punto da non potersi più confrontare, anche quando ciò potrebbe essere stimolante e proficuo.”
Un’accusa che spesso vi viene mossa è quella di essere dei provocatori. Gettando sassi nello stagno certamente le acque si muovono, tuttavia non temete che a furia di contrapposizioni così forti e sprezzanti non si finisca per avere dibattiti, soprattutto in futuro, che non portano ad alcuna compenetrazione delle idee?
“Siamo provocatori, è vero, ma fino ad un certo punto. Noi usiamo la provocazione per stemperare, ma non creiamo mai un clima respingente. Non a caso invitiamo continuamente i nostri contestatori, e abbiamo avuto molti confronti sul nostro canale con loro, poi magari capita che vengono, ci dicono di essersi trovati bene, e dopo buttano fango per mesi. Nell’esprimere le nostre opinioni discutiamo con tutti discutendo alla pari, ma mai svilendo o sminuendo il nostro ospite; e se facciamo una battuta il più delle volte è per sdrammatizzare.
Spesso, invece, l’accusa di provocazione viene fatta per delegittimarci estrapolando battute e sketch di pochi secondi da intere live, dove il tono è evidentemente ilare e leggero, decontestualizzando da discorsi ampi e complessi. Se chi ci accusa, o ha pregiudizi, vedesse intere live, capirebbe le opinioni che abbiamo e come improntiamo i nostri dibattiti. E magari, pur rimanendo di un’opinione contraria, non si azzarderebbe a definirci provocatori, o peggio. Un po’ come Feltri, che affermava di conoscerci avendo guardato solo 10 minuti di “best of” su YouTube (ossia video che contengono i momenti più divertenti e trash delle live, n.d.r.).”
Attorno al Cerbero gravitano molte opinioni: c’è chi lo idolatra, sfruttandolo come pretesto per avallare il proprio politicamente “scorretto”, e chi, invece, lo condanna ciecamente basandosi sul “sentito dire” o sul (pre)giudizio determinato dall’estrapolazione strumentalizzata dei loro contenuti.
Chi scrive può dire soltanto che non v’è detto più veritiero di quello che recita: “l’apparenza inganna”. Sempre.
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!