Intelligenza artificiale o umanità artificiosa?

"E se fosse proprio la necessità di controllare le proprie emozioni a spingere la comunità scientifica a costruire macchine dotate di intelligenza, anche emotiva, simile a quella umana?"

Quando leggete articoli o nozioni sull’intelligenza artificiale, a cosa pensate? Il mondo della fantascienza, che si muove tra cinema e letteratura, ha sempre avuto il sogno erotico di costruire scenari, alcuni comuni e altri distopici, in cui la comunità umana si mescolava a quella robotica. Chi non ricorda l’uomo bicentenario, interpretato al cinema da Robin Williams?

Il cyborg, dalla sembianza umane, ha commosso tutt*, rinunciando alla sua immortalità e scegliendo di diventare umano, per vivere una vita mortale e, quindi innamorarsi, vivere e morire. Per non parlare di Joaquin Phoenix, che nei panni Theodore Twombly, nella pellicola “Lei” di Spike Jonze del 2013, si innamora di Samantha, voce umana del sistema operativo “OS 1”, che tanto sembra l’anagramma di un altro sistema operativo “IOS”, a noi familiare. Il filo conduttore tra i due film, oltre all’elemento robotico, è legato al grande tema delle emozioni. Il cyborg si innamora dell’umana, l’umano si innamora del cyborg.  E se fosse proprio la necessità di controllare le proprie emozioni a spingere la comunità scientifica a costruire macchine dotate di intelligenza, anche emotiva, simile a quella umana?

La linea sottile tra analogico e digitale è stata stravolta ormai da più di un decennio, da quando il computer si è trasformato in uno strumento accessibile e comprensibile a tutt*. Prodotto capitalista o strumento di emancipazione, di certo un mezzo che ha permesso in larga scala di navigare in rete. Una rete nuova, senza confini e con pochissime protezioni, ma piena di sirene incantatrici, come ogni odissea che si rispetti. Oggi quel computer si è trasformato in uno smartphone, e in tante altre cose, diventando un’estensione bionica del nostro corpo. Chiunque, senza, si sente perso.

I nostri dispositivi ormai ci conoscono, ci parlano, ci ascoltano, ci consigliano quale strada imboccare per arrivare prima. Quale canzone ascoltare in base alle nostre preferenze musicali, cosa ci piacerebbe acquistare. Ci chiedono anche come stiamo, se sono particolarmente sensibili.  Il mio cellulare conosce persino quanto spendo al mese e per comprare cosa. Nessuno mi conosce meglio, nessuno.

Ragion per cui sarei capace di uscire senza intimo, ma mai senza “lui”. Il mondo naturale che conosciamo da bambin*, si trasforma molto presto in un mondo fittizio, illusorio, fatto di esperienze sempre più digitali e sempre meno reali. Tanto da non sapere più nemmeno separare la realtà – quella vera – dal mondo fisico. Una reaction su instagram significa che “ce stanno a provà” oppure no? Chi dice di non esserselo mai chiest*, mente.

Il punto è che abbiamo la necessità di normare quello che avviene nelle realtà virtuali, che molto spesso diventano poi reati reali. Pensiamo ai furti di identità: già questo elemento ci fornisce una risposta. Flussi di dati, condizionamenti, scambio di emozioni virtuali, costruiscono l’infosfera mondo in cui stiamo creando la nostra casa dei sogni, iperconnessa ad ogni forma di intelligenza artificiale. Ed è proprio questo flusso di informazioni che nutre e arricchisce il mercato dei big data, a rappresentare un affare di gran lunga migliore del petrolio. Ma questo mondo iperconnesso lo abbiamo creato noi, forse per sentirci creatori simili a un dio?

Questa riflessione mi porta a chiedermi cosa spinge gli esseri umani a sognare di costruire – prima – e di fabbricare – poi – macchine intelligenti che abbiano un sistema operativo simile al cervello umano e quindi in grado di emulare l’umanità e la sua capacità di pensiero. La disciplina informatica dell’intelligenza artificiale aspira proprio a questo fin dal 1956, anno in cui John McCarthy, che se ne professa pioniere ufficiale, battezza questa branca dell’informatica con il nome di “Artificial Intelligence”. Gli esseri umani sono da sempre considerati macchine complesse, spesso divise tra mente e cuore, tra ragione e sentimento. Forse, costruire forme di intelligenza artificiali, distrae dai nostri bug emotivi?

Se, fino a qualche anno fa, di intelligenza artificiale se ne parlava e basta, oggi è qui, tra noi. E siamo noi a testarla, in maniera direttamente inconsapevole, senza accorgercene, parlando un po’ con Alexa e un po’ con Siri. Guidando le nostre macchine intelligenti, che sono in grado di rallentare quando noi non lo facciamo. Parlando con i chatbox, dai nomi più strani, dei vari costumer care. Vogliamo affidare il mondo alle macchine o demandare alle macchine le cose che non ci piace tanto fare?

Prima pensavo di sì: l’uomo crea i robot, gli algoritmi, per liberarsi dei doveri e dedicarsi ai piaceri. Per vivere dedicandosi ai suoi talenti, dandosi all’arte, alla letteratura, al mondo. Non per rinchiudersi un videogame. Un mio avatar io lo vorrei, lo ammetto. Ma solo per mandarlo a lavoro al posto mio, mentre io viaggio per il mondo. Questo aspetto della robotica mi attrae, tutto il resto meno. Pensavo che lo scopo dell’informatica fosse agevolare la vita umana, senza snaturarla, semmai potenziandola. Non dovrebbe servire a questo l’intelligenza, che sia artificiale o emotiva?

Poi ho letto che in Corea sta spopolando una girl band: loro si chiamano Eternity, “Eternità”. La band è costituita da undici ragazze, sono pure carine, la loro pelle è perfetta come tutte le coreane. Sono state costruite alla perfezione. Mi direte e dove sta la particolarità? Queste artiste, nella realtà, non esistono. Sono figlie di un software, come un cartone animato della Pixar.  Eppure sono seguite da una miriade di fan, persino in America.

Il loro business è reale. La relazione che hanno creato con i loro fan, pure. Ed è questo che mi spaventa dell’intelligenza artificiale: vuole monetizzare, eliminando il contatto reale con noi stessi e con gli altri. Riducendo un’emozione, chiudendola in una scatola. Una scatola costosa, che vale milioni di dollari, ma che cancella la bellezza dell’essere semplicemente umani, con i nostri nervi scoperti e le nostre fragilità. Senza perfezione. Senza eternità. Solo noi. Esseri umani con un cuore pensante, che crea vita, non ologrammi.

L’umano potrà pure non essere eterno, ma è vivo. E la vita non si può costruire. Se mai è la vita a costruire un essere umano. 

Cor habeo. 

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