“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.” Mi sembra di poter sentire ancora oggi la voce sincopata del doppiaggio dei film anni ’90, quando John Keating, il carismatico professore de L’attimo fuggente, impersonato magistralmente dall’ormai compianto Robin Williams, sibilava in una confessione disvelatrice di una lezione dal sapore di un segreto proibito.
La letteratura custodisce un segreto oscuro e negletto alle altre discipline: la prova dell’inguaribile fame di infinitezza dell’animo umano. Pochi autori hanno osato spingersi fin lassù, sull’orlo dell’esistenza umana, per raccontare a noi, ciechi posteri, la brama di eternità che la percezione di quella vertigine urla all’uomo. Tra questi autori, Giacomo Leopardi, occupa, però, un posto a sé. E per me, accostarsi con parole nuove all’Idillio dell’Infinito, il manoscritto più famoso di colui che viene definito impunemente come il “poeta del pessimismo”, è praticamente impossibile. Perciò, farò l’unica cosa che m’è possibile: descrivervelo con i miei occhi; gli occhi di chi, dipingendoselo sulla parete della stanza, ha trasfigurato quella poesia in una preghiera, ed infine in un elogio. L’elogio del limite.

Leopardi era un giovane uomo sofferente, la gobba aveva finito per deformargli le ossa, impedendogli non soltanto di deambulare correttamente, ma perfino di respirare in libertà. I suoi limiti fisici non gli impedivano, però, di ricercare quella libertà, quell’estensione mai trovata nel corpo nella scrittura, che è uno dei moti dell’anima: la sua calligrafia così distesa, aperta, come a svelare piccoli orizzonti di significato tra una parola e l’altra.
Eppure, l’infinito, l’ho vissuto proprio come qualcosa che nessuno si aspetta da una poesia con un titolo così altisonante, ossia come una lode alla finitezza umana. L’Infinito si apre e si chiude allo stesso modo, ossia con l’idea dell’infinito, “Sempre” e “mare”, ciò che cambia però è la consapevolezza dell’autore/lettore alla fine dell’idillio.
Nei primi tre versi Leopardi non fa che raccontare l’esperienza umana più comune: il blocco. Quante volte ci confrontiamo con i nostri limiti, con le nostre inefficienze? Con tutto quel che non siamo e vorremmo essere? La siepe è esattamente questo; e la descrizione del poeta è icastica di quanto ci accade quotidianamente. Il giovane Giacomo si reca sul colle Tabor, il colle “caro” e metafora della sua vita. Il panorama lassù è semplicemente straordinario: la vista si estende dai monti Sibillini per attraversare le lande di girasole che ammantano come fugaci pennellate di giallo l’immenso spazio bucolico che circonda il monte, fino a giungere al Mar Adriatico inchinato ai piedi del Conero e della sua cresta verde.
Ma questo panorama mozzafiato è come interrotto, la linea dell’orizzonte si sospende sulla siepe – cara come il colle – che non gli permette di congiungere le due linee dell’orizzonte, tagliandolo in due, macchiando la visione di quella amena bellezza, distraendola dalla sua unicità. Ciò che ci si dimentica, è che questa poesia è un gioco di opposizione delle distanze, i “questo” e i “quello” si alternano in una danza perpetua che si muove su ritmo delle incalzanti congiunzioni “e”.
“Questo colle”, “questa siepe” ; la nostra vita è qui, esattamente come sono dinanzi a noi tutti quei limiti, quei blocchi che ci impediscono di scorgerne la meraviglia. Come disse Ungaretti un secolo dopo, l’infinito parla di ciò che non si vede: è il senso di privazione della bellezza ad innescarne il desiderio irrefrenabile. La stessa parola desiderio deriva dal latino de- che ha un’accezione negativa, a cui fa da suffisso –sidus che significa, letteralmente, stella. In altre parole desiderare significa “avvertire la mancanza delle stelle”.
Un mondo in cui tutto ci è possibile, in cui nulla ha un peso, in cui ogni cosa ci è illimitata bastando allo scopo uno schermo a led di 6 pollici, privo di ostacoli e di siepi, è come un cielo senza stelle, in cui non è possibile desiderare nulla. Abbiamo scambiato il sogno con il bisogno, i sentimenti con l’utile, la felicità con il benessere, le persone con gli utenti, ed ora, in un tempo in cui tutto ci viene presentato come possibile e illimitato, non avvertiamo più la consistenza autentica della realtà.
Il blocco in Leopardi mette in moto quel “ma”, da cui con slancio prende forma l’infinito, e la stessa perpetuità dei gerundi “sedendo e mirando” ne preannunciano la venuta. Ciò accade nell’esatto momento in cui il poeta si “finge”. Ho sempre pensato che fosse una brutta parola, perché nella nostra cultura questo termine è trasfigurato: finge chi mente, chi simula volendoci illudere di qualcosa. Ma anche qui, l’etimo originario della parola è benaltro: fingere nel suo significato autentico ha proprio l’accezione del plasmare, creare, dare forma. Fingere è l’atto di immaginazione creativo che porta il poeta a superare l’ostacolo della siepe. D’altronde, fu anche un altro uomo straordinario, un secolo dopo, a cogliere la leopardiana intuizione affermando “l’immaginazione è più importante della conoscenza” (Albert Einstein). L’immaginazione non è infatti il vizio di chi ha gusto per la fantasia, ma è l’indomita speranza di chi osserva le cose e si impegna per condurle al loro compimento. Un padre che fa due lavori per pagare la retta universitaria al figlio immaginando il giorno della sua laurea, non è uno a cui piace fantasticare, ma che sa osservare oltre lo strato superficiale delle cose. Il pensiero che immagina non solo supera la siepe, ma può andare ovunque: percorre i luoghi orizzontalmente (interminati spazi), giunge fino al cuore di ogni cosa (profondissima quiete), innalzandosi fino alla volta celeste (sovrumani silenzi).
Al centro dell’idillio, quando il pensiero, ossia la ragione, fingendosi, incontra il cuore che si “spaura”, ossia si smarrisce come di fronte ad un’apparizione sacra “sovvien l’eterno”. Il cuore si ricongiunge con la ragione e la spoglia di quelle vesti gelide e grigie che il tempo del progresso l’aveva sedotta ad indossare. L’infinito non si vede in Leopardi, ma si ascolta: “odo stormi”, “questa voce”, “il suon di lei”. L’eternità si può percepire solo con un senso che elimina ogni separazione tra noi e ciò che ci circonda: l’ascolto.
Siamo infiniti ogniqualvolta riusciamo ad ascoltarci e ad ascoltare intimamente, profondamente e senza riserve. Lo sguardo non può vedere quello che solo il cuore può ascoltare. È solo così che infine anche Leopardi riesce ad abbattere il limite; il limite dei 14 versi della forma della poesia classica, il sonetto. A quei 14 versi Leopardi ne aggiunge uno in più, quello del dolce naufragio nel mare dell’infinito. Quel “m’è” è il segno tangibile del cuore che si riappropria della ragione che non riesce a vedere ma che attraverso la forza immaginifica del sentimento riesce a volare oltre i propri limiti annegando, così, dolcemente nel mare di ciò che eterno.
L’infinito si apre e si chiude allo stesso modo, ossia con l’idea dell’infinito, “Sempre” e “mare”, ciò che cambia però è la consapevolezza dell’autore/lettore alla fine dell’idillio. L’autore/lettore, infatti, solo adesso ha imparato ad ascoltare.
Solo adesso so che significa amare.
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!