Parlare di eutanasia è soprattutto un modo per parlare delle paure dell’uomo e delle sue speranze, per provare a dare risposte a domande che la ragione pone, ma per cui a volte non dà soluzioni socialmente accettate.
Dal punto di vista bioetico, l’eutanasia è un atto moralmente ingiusto tanto quanto lo sono l’omicidio e l’istigazione al suicidio e infatti, nel nostro paese, è punita dal codice penale.
Ho pensato alla morte, specialmente nell’ultimo periodo.
Ho paura della morte, come tutti, credo!
Tempo fa ci ho pensato più concretamente, ho pensato a cosa avrei preferito che fosse fatto al mio corpo e ho informato le persone più care riguardo alle mie volontà, nel caso in cui mi trovassi a non avere più facoltà di decidere. Ho pensato alla donazione degli organi, alla cremazione, alla volontà di voler porre fine alla mia vita nel caso in cui diventassi semplicemente un corpo incapace di svolgere autonomamente le funzioni vitali o se mi trovassi in stadi terminali di una malattia irreversibile. Pur essendo credente, mi sento di affermare che la mia volontà è esattamente quella di non continuare ad esistere come corpo inerme su questa terra, ma come anima in un aldilà ultraterreno. E credo fermamente, inoltre, che nessunə possa giudicare la mia volontà, ma credo altrettanto fermamente che non sia così facile poter legalizzare una scelta simile.
Dalla mia chiacchierata con la professoressa Benedetta Franceschiello, che vive e lavora in Svizzera da un paio di anni e ha prestato servizio di volontariato presso un’associazione che accompagna i pazienti terminali nel percorso di fine vita, sono scaturite diverse riflessioni. Una tra tutte è la netta differenza di garanzia, fra Italia e Svizzera, del diritto di autodeterminazione della persona. Proverò a creare un percorso riflessivo, passando dalla bioetica alla biologia, per analizzare poi il conflitto eterno tra fede e scienza e concludere con l’esempio svizzero di associazione volta a tutelare il diritto all’autodeterminazione.
Tematiche come l’eutanasia, le cure palliative e l’assistenza ai disabili sono tutte accomunate da una riflessione sul valore della vita umana che, nei diversi dibattiti della bioetica sul fine vita succeduti negli anni, presuppone un quesito: la vita umana è un bene primario che la società e gli individui devono difendere e tutelare con un’attenzione prioritaria, oppure ci sono casi, come gli stadi terminali di malattia cronica invalidanti o stati vegetativi, in cui la vita può perdere il suo valore, con interventi che pongono fine alla stessa? Effettivamente la vita non perde valore, ne acquista uno diverso per la persona che si trova a vivere quelle determinate situazioni.
Esiste l’ambigua contrapposizione tra sacralità e qualità della vita, che presuppone una fede religiosa per difendere la vita come bene primario, inducendo a pensare che chi non ha una fede necessariamente disprezza la questione della qualità della vita, al contrario delle persone di fede che ne rivendicano l’intangibilità. Dal punto di vista filosofico e bioetico, tentando di analizzare le sue varie sfaccettature, ad una prima analisi, non si può prescindere dal dire che chi, da persona di fede, ritiene la vita un dono di Dio, ha una solida motivazione per considerarlo un bene da difendere sempre, ma ha anche un sostegno efficace per accettare la sofferenza della vita e considerare la morte come compimento necessario della vita terrena. Esistono dei punti d’incontro tra i due pensieri, che sia il religioso che il non credente condividono.
Un primo accordo risiede nella distinzione tra vita biologica e vita biografica: la pienezza della vita umana comprende la vita spirituale della persona, ma la vita biologica è condizione necessaria per l’esercizio delle funzioni umane e perciò ne consegue che anche questa sia da tutelare come bene primario. Inoltre, la libertà è una proprietà della persona, ma presuppone la vita per essere esercitata. È lecito stabilire su base scientifica fino a che punto possa considerarsi cosciente un essere umano privato dell’encefalo, ma è altrettanto lecito riconoscere che gli strumenti a disposizione sono scarsi. Quindi, poiché l’uomo è un tutt’uno tra vita biologica e biografica, deve esserlo anche quando le funzioni superiori non sono ancora sviluppate, non lo sono più o non lo saranno mai.
Un’altra questione da valutare è la definizione di vita umana come bene: nella sua dimensione fisica, la vita non è il bene più alto che l’uomo può raggiungere, se pur considerato un bene primario anche quando l’uomo non può temporaneamente o definitivamente compiere la sua capacità più alta, rimanendo condizione necessaria per disporre di ogni altro bene. Perciò il suo ruolo di condizione stabilisce che il diritto alla vita fisica per l’uomo è un bene indisponibile e privare qualcuno della vita è sempre un male, e mai sarà considerato un bene! La difesa del valore della vita si deve coniugare con il fatto che anche la morte è un momento che le persone sono destinate a vivere, a cui devono potersi preparare e in cui si coniugano sia nelle dimensioni passive sia in quelle attive. Esiste un pendio scivoloso che riguarda la discriminazione delle vite degne di essere vissute rispetto alle altre, creando così un grande spiraglio per abusi di ogni tipo. Infatti, molti autori hanno stabilito che non poter prevedere la degenerazione degli abusi è sufficiente per non legalizzare l’eutanasia.
Infine, ultimo punto cardine è quello della figura del medico, che si trova in una posizione delicata in quanto a lui è affidato il compito di somministrare il farmaco che provoca la morte e va in contraddizione con quello che da secoli è riportato nel codice deontologico medico, ovvero, come citato nell’articolo 17 dello stesso, “arrecare la morte ai propri pazienti”. In Italia è ormai legale l’eutanasia passiva o suicidio assistito, che altro non è che somministrare sedativi che lasciano morire il paziente terminale. L’eutanasia attiva, invece, è l’intervento medico che prevede la somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente che ne fa richiesta e soddisfa determinati requisiti, ed è ancora illegale. Eppure, tra le due pratiche è sottilissima la differenza e risiede nel soggetto che somministra il farmaco letale.
Con la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale è possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito, ovvero l’ausilio indiretto a morire da parte di un medico e, mentre l’eutanasia è illegale in Italia, tanto da essere considerata reato e da rientrare nelle ipotesi previste punibili dall’articolo 579 del codice penale, in Svizzera non lo è da molti anni.
Exit, ad esempio, è un’associazione basata sul diritto svizzero fondata nel 1982 e, ad oggi, è una delle più anziane e grandi organizzazioni per il testamento biologico e il suicidio assistito. Essa si impegna in favore dell’autodeterminazione delle persone nella vita e nella morte. Fra i vari suoi compiti, rilascia un testamento biologico e, alla fine della vita, offre un’assistenza al suicidio. Exit coopera con le autorità svizzere e dispone, inoltre, di un comitato patrocinatore di grande rilievo, in grado di far sentire la propria voce negli ambienti politici e nella società. Gli assistenti al suicidio sono persone con grande esperienza, spesso provenienti dal settore sociale o medico. Essi seguono una formazione intensa e continua e vengono sottoposti a valutazioni da parte dell’università di Basilea. L’associazione viene sostenuta da medici, scienziati, politici e molte altre personalità. Cittadini di ogni strato sociale sostengono, inoltre, l’autodeterminazione sia idealmente che finanziariamente. E ci fa capire che è solo attraverso la collaborazione con molteplici partner che il diritto all’autodeterminazione in Svizzera può essere pienamente tutelato.
Esistono, quindi, filtri culturali e religiosi che creano percezioni alterate del valore della vita umana, di cui spesso non siamo consapevoli. Filtri, attraverso i quali leggiamo determinate informazioni che offuscano una lettura e una conseguente valutazione più oggettiva e razionale, tale da permetterci di riconoscere il reale valore della vita di ogni individuo uguale per tutti e, di conseguenza, l’inviolabilità di questo diritto per ogni essere umano.
Nata a Cosenza il 27 agosto 1987, Dottoressa Agronoma di professione, progettista del verde per passione.
Ama il mare e l’enogastronomia, i viaggi e ogni forma d’arte.
Strimpella, canticchia e prova a divorare libri per hobby, ma il suo sogno nel cassetto è sentirsi sempre più libera di essere sé stessa!