Il sacrosanto diritto di essere stanche

"L’Italia è quello strano paese in cui devono succedere catastrofi, come quella dell’Ospedale Pertini di Roma, per riconoscere e vedere un problema vecchio come il mondo. In questi giorni il Paese è sotto shock per la morte del piccolo neonato, di soli 3 giorni, soffocato dallo stesso corpo che gli ha dato la vita. Asfissiato dal peso della stanchezza di una neo mamma, che si è addormentata mentre allattava la sua piccola creatura, senza aver nessun* accanto."

Ciao,

sono Roberta, non sono una madre, ma voglio comunque parlare di maternità e del sacrosanto diritto di essere stanche.

Stanche di dover esser perfette, stanche di dover essere sole, stanche di sentirci in colpa. Lo voglio fare per tutte quelle donne che si sono sentite sbagliate per esserlo; per le mie amiche che mamme lo sono diventate; per quelle che lo diventeranno tra poco.

Lo voglio anche fare per tutti i papà che vogliono essere padri presenti e amorevoli, e non essere più costole subordinate di una madre, stanca. Perché, se da sempre la donna è considerata la costola dell’uomo nella vita pubblica, un padre è considerato una costola di una madre in famiglia e nelle attività di cura. E non basta più a nessuno dei due essere un’ appendice dell’altro o dell’altra nella sfera pubblica e privata.

L’Italia è quello strano paese in cui devono succedere catastrofi, come quella dell’Ospedale Pertini di Roma, per riconoscere e vedere un problema vecchio come il mondo. In questi giorni il Paese è sotto shock per la morte del piccolo neonato, di soli 3 giorni, soffocato dallo stesso corpo che gli ha dato la vita. Asfissiato dal peso della stanchezza di una neo mamma, che si è addormentata mentre allattava la sua piccola creatura, senza aver nessun* accanto.

Chissà cosa sognava quella madre, dopo l’estenuante miracolo del parto. Forse qualcun* che si prendesse cura di lei, in quel momento? Nessuno prepara mai davvero una donna, a diventare madre. Nessuno racconta mai alle donne la verità. La narrazione legata alla maternità profuma sempre di talco per bambin*, di favolette, di carezze amorevoli. Mai di lacrime, dolore e senso di inadeguatezza.

“Ce la farai” vedrai. “ti verrà naturale prenderti cura di tuo figlio o di tua figlia”. Quante volte avete sentito queste frasi pronunciate alle vostre mamme, alle vostre zie, alle vostre sorelle. Parole pronunciate da donna a donna, molto spesso. Siamo in primis noi donne a volerci perfette, dedite al sacrificio. Ma chi ce lo ha insegnato? La perfezione non fa parte dell’umanità. E perché allora la pretendiamo sempre da una madre?

Non so per quale legge naturale, siamo sempre tutti convinti e tutte convinte che una madre sia invincibile, instancabile, perfetta. Un’eroina da fumetti, in grado di sopperire a tutti i bisogni vitali. Una madre deve essere come Maria, la madre di Gesù: una predestinata alla sofferenza.

Ci aspettiamo sempre l’impossibile da una donna, in quanto tale. La cultura che ci circonda, e che modella aspetti e comportamenti sociali,  ha costruito nei secoli stereotipi, cuciti su misura sul corpo di una donna: uno di questi è l’essere multitasking, l’altro è essere una “mamma wonder woman”.

Ma che una madre possa farcela da sola nell’immaginario comune, lo sancisce anche il Testo unico sulla Maternità e Paternità (Dlgs 151/2001), quando non elargisce lo stesso congedo parentale ai padri e alle madri, ma autorizza e concede solo 10 giorni di congedo ai neo papà, ovviamente salvo i casi in cui una madre per impedimenti psichiatrici o fisici gravi non può svolgere il suo ruolo di madre. 

Ma è giusto che una madre smetta di essere un individuo, con i suoi bisogni, con i suoi spazi, con i suoi diritti solo perché mette al mondo un’altra creatura? Un essere che crea e dà la vita, dovrebbe essere libera di vivere la propria, non pensate?

Eppure, spesso, una donna quando diventa madre smette di essere umana, fragile, se stessa e si spezzetta in tanti piccoli pezzettini. C’è la parte che vuole curare e proteggere il proprio bambino, o la propria bambina, al costo della sua di vita. C’è l’altra parte che si paragona alle altre madri, alle donne, ai modelli che ha visto rivivere nella sua quotidianità. E poi c’è il pezzettino più tagliante, quello che la ferisce più di tutti, quello che rappresenta sé stessa e che vorrebbe non avere, il suo spazio autentico: la sua individualità, le sue passioni, i suoi bisogni, le cure che vorrebbe dedicare a se stessa. Il suo diritto di sbagliare e di essere fragile.

E tra tutti questi pezzettini, rimane spesso scomposta, torturata dal quel bisogno di perfezione che il mondo si aspetta da lei, da quell’istinto materno. Tutti quegli occhi puntati addosso… Poche mani ad aiutare. Anche poco welfare.

Ed è un po questo che forse è successo in quella stanza di ospedale, in quel reparto di maternità dove in genere una vita inizia e un’altra cambia: una donna è stata lasciata sola, come avviene da sempre.

Oggi sono  tutti ad incolpare il “rooming in”, la pratica che prevede di tenere il neonato o la neonata nella stanza della madre. C’è chi incolpa il covid, di aver cambiato le regole di accesso e permanenza dei familiari negli ospedali. Ma sono davvero queste le cause?

Ricordo che quando è nato mio fratello, mia mamma era distrutta, straziata. A me sembrava normale e dovuto, nonostante avessi il cuore stretto in un senso di colpa che all’epoca non capivo.  Ero solo una bambina, guardavo gli altri essere felici e mia madre essere stanca. Nessuno si preoccupava per lei. Eppure il covid non c’era, il rooming in nemmeno. Ma  mia madre era sola, con il peso di quella fatica, circondata da tutti quei parenti in festa che vedevano solo mio fratello. Ed erano felici.

Ma io la vedevo, avevo il cuore già diviso in due, dovevo essere felice anche io? Una parte di me lo era. Un’altra no. Avevo già capito che sarebbe stata una battaglia? Eppure vent’anni fa la violenza ostetrica era un po come una bestemmia. Non si poteva pronunciare ciò che accadeva nelle sale parto. Era tutto così naturale. La violenza lo era. Lo è stata da sempre. 

Oggi sappiamo cosa significa violenza ostetrica, ma la vediamo comunque accadere, in molte forme, perché quella violenza a qualche livello è ancora invisibile agli occhi delle stesse vittime e di chi la compie.

Molte donne si rendono contro di averla vissuta solo dopo, solo quando la raccontano ad altre donne che l’hanno vissuta. È allora che quel senso di inadeguetzza si fa meno amaro, quando non si sentono più sbagliate. Quando si riconoscono nelle sofferenze delle altre e pensano di non esserne la causa di quel peso soffocante.

Stando ai dati dell’OVO (Osservatorio sulla violenza ostretica) il numero di donne che hanno denunciato episodi di violenza in sala parto è aumentato durante la pandemia, per via delle restrizioni imposte degli ospedali.

La violenza si percepisce di più quando rimani sola? Quando non c’è nessuno che ti distrae da quel dolore?

Quando nessuno ti racconta che è normale. Fai i conti solo con te stessa, e allora lo denunci. Allora inizi a vedere che le cose che ti sono sempre apparse normali, naturali, non lo sono affatto ed inizi a fare qualcosa. A seminare un cambiamento.

Questa riflessione vuole essere un segno di vicinanza nei confronti di quella madre che si è svegliata senza più suo figlio, e incolperà sé stessa. A lei il ruolo più difficile, quello di prendersi cura di sé, del suo dolore e di rimettere insieme tutti i suoi pezzettini, anche quelli piu taglienti. I titoli dei giornali naufragheranno, il dolore no. Il senso di colpa men che meno.

Questa riflessione va alle mamme di ieri, a quelle di domani. A quelle di oggi.

Perché se l’aborto per qualcun* (la ministra Rocella) è “purtroppo” un diritto, quel “purtroppo è un diritto” vale anche per la maternità e la paternità. Prenderse cura  è un impegno etico e politico che spetta  a tutti e a tutte.

Le mani avvolgenti di una madre sola, non bastano più.

Alle madri e ai padri coraggios*.

Cor habeo.

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