Lo storico ha tanti nemici. L’uomo in quanto tale, la morale umana, il tempo: sono solo alcuni degli esempi più importanti. Tutti sono, in realtà, anche alleati fidati dello storico. Annoverare il tempo tra i coscritti, però, fa una certa impressione: com’è possibile?
Per poter comprendere, è necessario riflettere su cosa sia davvero il tempo. Esso è un vero e proprio vaso di Pandora, con l’aspetto di una matrioska. Il suo contenuto è rivelatore, talvolta disastroso; ma ogni strato dello scrigno è un enigma e abbisogna di una giusta interpretazione per poterlo svelare e passare al successivo. Gli strumenti per aiutare a sciogliere la matassa del tempo sono sparsi nel processo: diplomi, documenti di Stato di epoche passate, utensili, armi, vestiario, arte dimenticata, diari. Tutto fa brodo, per darsi un vantaggio nella risoluzione dei non detti all’interno della storia umana.
Un bravo storico però sa che non ogni cosa che trova ha il medesimo valore, il tempo non lo aiuta affatto a capire quanto gli serva un’informazione anziché un’altra. Anzi, gli è ostile: più il tempo scorre, più molti reperti vanno perduti, così da rendere sempre più impossibile svelare il contenuto del tesoro polveroso.
Gli archeologi, gli archivisti, i filologi, i linguisti e tutti i protettori dei beni culturali salvano il salvabile. Lo storico si limita a scovare il filo rosso, a mettere insieme gli indizi e porli in un quadro più grande. Un lavoro affatto facile, per nessuno di loro. Un lavoro che richiede flessibilità di pensiero, costanza, talvolta intuito e creatività, caparbietà, precisione, coraggio di fare delle scelte nella selezione delle fonti. Un lavoro che va lasciato ai professionisti e per nessuna ragione al mondo dovrebbe essere dato in mano a chi vorrebbe strumentalizzare il processo per dimostrare la sua verità.
Chi millanta di poter lacerare il velo di Maya e portare a galla la vera verità, contro la verità convenzionale, normalmente non si rivolge agli ambiti accademici. Al contrario, cerca la legittimità parlando alla gente comune. Lo fa attraverso formule mistificatrici, da vero gossip: “ecco come stanno davvero le cose, ecco come ci hanno mentito fino ad oggi”. La rivelazione spettacolare attira così tutta l’opinione pubblica in un vortice e dà vita a due grandi fronti: chi crede nella verità e chi rimane servo dei poteri forti in un regime di dittatura. Non importa poi se si tratti davvero di dittatura, l’accusa sarà sempre di censura di idee.
Lo svelare la verità alle masse in questi termini ricorda un po’ come i philosopes francesi intendevano fare la Rivoluzione: il conoscere quanto corrotto fosse l’Antico Regime e quanto la chiesa cattolica volesse tenere assopite le menti e le coscienze degli uomini, trasformava la lotta per i diritti un dovere morale. Però, adesso, caliamoci un po’ di più nella storia, nel vivo della ricerca storica, con un esempio lampante.
Uno degli uomini che è più rimasto impresso nell’immaginario collettivo, riguardo questo periodo, è Maximilien de Robespierre. In Francia è una figura ambigua: c’è chi lo addita come monstre, chi come sauveur. In Italia, lo ricordiamo come un paranoico assetato di sangue. Così è come lo insegnano a scuola, approssimativamente, preso a ghigliottinare chiunque non la pensasse come lui. Ora, noi siamo dei bravi storici: sappiamo di dover attingere a delle fonti per poter confermare o smentire questa visione. Ecco, le fonti parlano di qualcuno di ben diverso.
Contestualizziamolo: un avvocato benestante e non altolocato, di rigorosa educazione, con fiducia assoluta negli ideali rivoluzionari. Egli pensava che suddetti valori fossero condivisi da tutti, dal più nobile al più analfabeta e appestato degli uomini. Aveva messo da parte se stesso per rendere quelle idee istituzione e presto divenne conscio del fatto che era necessario ricorrere a qualsiasi strumento per difendere la nuova Francia. Minacciato da un fuoco incrociato di filomonarchici e controrivoluzionari esterni, iniziò a credere fosse indispensabile eliminare ogni germe che potesse minare dall’interno il paese.
Sebbene egli continuasse a credere che i diritti inalienabili dell’uomo albergassero, sopiti, nel popolo, molti eventi della Rivoluzione gli lasciarono solo delusione. Una delle fonti che useremo è una delle lettere presenti nell’epistolario recuperato. Robespierre racconta di un tumulto durante gli inizi della Rivoluzione: i poveri iniziarono una protesta, assaltando i luoghi del potere con una certa ferocia a causa della fame. Ma questo movimento si disperse nell’arco di pochi giorni. Egli si domandava perché il popolo, una volta preso ciò che voleva – il pane – non avesse comunque continuato fino in fondo, affinché il pane non mancasse più loro. Ma si era già risposto da solo: nessuno aveva intenzione di prendersi fantomatici diritti mai considerati prima di allora, ma solo il pane, ciò che bastava loro per vivere.
Il contenuto di questa lettera e il contesto generale della rivoluzione dovrebbero essere emblematici per comprendere quanto ci sia di politico negli ideali della Rivoluzione quanto nelle opere revisioniste, che nel nostro Paese in particolare dilagano a partire dagli anni 90.
Con questo non si intende affatto che tutto ciò che è uscito dalla Rivoluzione sia revisionistico nei confronti dell’Antico Regime: è assodato che la retorica illuminista mostrasse i difetti istituzionali del tempo in maniera anche piuttosto esagerata, ma alla luce di quanto detto diventa evidente quanto la politica si vesta di moralità. E poi la verità che gli illuministi proponevano non nuoceva all’individuo in quanto tale, ma al ruolo che l’individuo ricopriva allora, in un tentativo di livellare le disparità sociali e affacciarsi verso il progresso del benessere dell’umanità intera – intento nobile, se non fosse che però il concetto della storia umana sempre in ascesa sia un retaggio maledetto che ci portiamo dietro ancora oggi e ci stia tragicamente uccidendo insieme alla logica imperialista.
Oggi, invece, abbiamo a che fare con una retorica che vuole contestare sì la visione delle cose attuale, ma ha nostalgia di un secolo breve che sarebbe meglio tenere sepolto per sempre. I suoi spettri tornano ciclicamente, ogni volta che qualcuno nel nostro Paese dice che sotto Mussolini si stava meglio, dimenticando cosa la svastica ha rappresentato e cosa il fascismo sia stato.
La storia non ha un partito politico di riferimento, se si è abbastanza consapevoli della stupidità dell’uomo e non lo si imputi di ciò. Nazisti e comunisti, rivoluzionari e civili: avranno avuto tutte le loro ragioni, dalle più nobili alle più infime, guidati o meno da coraggio o paura della morte per ciò che hanno fatto. Tuttavia ognuna delle loro scelte ha avuto delle conseguenze che si sono tradotte in fatti in un determinato contesto. E questo contesto va interpretato proprio sottolineando i motivi più intimi che l’uomo in quanto tale potesse avere in quel momento.
La libertà di cui si era stati privati per delle scelte sbagliate si può ritrovare con una rivoluzione.
Il mantenimento dello status quo non si ottiene con l’eccidio.
Ai posteri storici l’ardua sentenza.
Quando la storia di oggi morirà come per noi è morto l’Antico Regime.