"La cosa assurda dell’ospedale è che, oltre a non avere mai sotto gli occhi scene “diverse”, il tuo unico pensiero è respirare. È la sola cosa che occupa la tua mente: continuare a respirare".

Da più di un anno siamo in balìa del covid, dei morti che si trascina dietro, degli allarmismi, delle chiusure, delle mascherine e del gel. Della mancata libertà. Da un anno, sono negate feste, riunioni di famiglia, viaggi, inviti a cena. Un pezzo di gioventù congelato – per non dire perso – a causa della pandemia.
Di storie sul covid ne abbiamo sentite tante, forse troppe, ma poche hanno messo in evidenza la crudezza della malattia, oltre che la sua semplicità. Perché no, non è vero che è solo un’influenza; no, non è che i giovani lo prendono solo il forma lieve; e no, non è vero che tanto a me non capita.
Lo sa bene Marco Gizzi, un giovane professionista romano di trent’anni, che ha voluto ripercorrere la sua storia insieme a noi.

Allora, Marco, com’è successo? Come ti sei beccato il virus del momento?
“Tecnicamente non ho idea di dove lo abbia preso, bisognerebbe fare tutta una serie di esami per saperlo, e questa è una cosa che andrebbe fatta all’inizio per risalire alla storia dei contagi. Io sono sempre stato veramente attento a tutta la questione dei dispositivi, ho sempre indossato mascherina, utilizzato gel e guanti; per me indossare la mascherina non è mai stato un problema, adesso un po’ meno, certamente. Io credo di averlo preso per una banalità: probabilmente, per disappannare gli occhiali in inverno, mi sarò toccato gli occhi con le mani non pulite. Non ho mai fatto cose “strane” in questi mesi, mi sono sempre attenuto alle regole, certo non ero un maniaco del virus, ma nemmeno uno che, banalmente, se ne frega”.

Prima di allora, hai mai avuto paura di prenderlo?
“Onestamente credevo che non mi sarebbe capitato, proprio perché non mi sono mai messo in situazioni rischiose. Io vivo con i miei genitori, e quindi il loro pensiero l’ho sempre avuto. Per proteggere la mia famiglia ho sempre evitato”.

Come si è manifestato?
“È iniziata che sembrava un’influenza, con una febbre che da subito è salita a 39. Il paracetamolo all’inizio sembrava attenuare la situazione, ma poi non ha più funzionato, quindi, la mia dottoressa ha capito che si trattava di covid, nonostante non sia andato a fare il tampone. Sono stato troppo male, avevo la febbre a 39 da una settimana, quindi non avevo assolutamente le forze per muovermi. Successivamente, i miei familiari hanno fatto il tampone ed è risultato positivo, ma nel frattempo, la situazione è velocemente degenerata. Non è che ricordi moltissimo di quel momento, non ero per niente lucido”.

Che impatto ha avuto su di te prenderlo?
“Innanzitutto ero arrabbiato, ma tanto: vedevo persone in giro a fare aperitivi, a comportarsi da indifferenti, come se tutto questo non li riguardasse, e poi, a chi capita? A te, a te che hai seguito tutti i protocolli, fino a sembrare il rompiscatole. Chiaramente, vivendo a Roma, sei un attimo preparato a questa possibilità, nonostante uno possa pensare che, alla fine, “a me non prenderà”.”

Ti sei mai sentito in colpa?
“No, per niente. Ho fatto tutto quello che dovevo fare. Io sono un tipo molto razionale, so che una colpa non c’è: magari non l’ho preso io per primo. Uno si sente in colpa se, a mio avviso, si ammala dopo aver fatto il cretino, andando di festa in festa. Però, io avevo mantenuto sempre degli atteggiamenti rispettosi, poi eravamo nel pieno della seconda ondata. Non bisogna mai dimenticarsi che il rischio c’è, per te e gli altri”.

All’inizio della malattia, quindi, sei stato a casa, in un ambiente familiare e confortevole. Quando e come è degenerata?
“Con la febbre, dopo un po’, ho iniziato ad avere il fiatone, quindi abbiamo preso il saturimetro e abbiamo notato che la saturazione si stava leggermente abbassando. Avevo dei parametri da tenere in considerazione, ma non sembrava nulla di allarmante. Non da subito quantomeno. Finché sono riuscito, sono stato a casa, perché per fortuna respiravo bene. Alla fine, nel giro di una mattinata, il valore è calato a picco e abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza. La sera prima riuscivo a camminare in maniera tranquilla, con una respirazione abbastanza normale; la mattina dopo, la situazione si era capovolta. Quindi, all’inizio sono finito al pronto soccorso, dove mi hanno fatto tutti gli esami del caso e dall’ecografia ai polmoni hanno visto che avevo la polmonite, anche abbastanza estesa. Sono stato subito ricoverato nella sala emergenze del reparto di terapia sub-intensiva e sarò stato lì almeno otto giorni, e in totale sono stato in ospedale circa 12 giorni. I peggiori sono stati i primi”.

Com’è stato essere ricoverato in un reparto covid?

“La cosa è che ti ritrovi in un posto dove hanno tutti la stessa cosa tua, e ovunque ti giri vedi persone che hanno i tuoi stessi sintomi e disturbi. Certo, c’è chi sta peggio, ma fondamentalmente eravamo lì tutti per il covid. Poi, la gran parte di noi aveva il casco per l’ossigeno, e nel frattempo accade che qualcuno sviene o viene portato via intubato. La cosa assurda dell’ospedale è che, oltre a non avere mai sotto gli occhi scene “diverse”, il tuo unico pensiero è respirare. È la sola cosa che occupa la tua mente: continuare a respirare. La maggior parte del tempo la passavo con il casco addosso, con una visuale appannata e i rumori del macchinario che trasmette l’ossigeno. Ti abitui quasi subito, anche se l’impatto non è decisamente dei migliori. Quando sono tornato a casa quasi mi mancava, perché pensavo “Oddio, e adesso come faccio? Come respiro?”, anche perché il problema vero è l’ipossia”.

Qual è stato il pensiero più frequente durante il ricovero?
“Il cervello lavora in modalità ridotta, mancando l’ossigeno, e si occupa delle cose più importanti, non hai assolutamente sveltezza o profondità di pensiero. Poi, quando vedi intorno a te altre persone che peggiorano da un momento all’altro, sei concentrato a resistere. Mi ha aiutato molto quando ho iniziato a fare la fisioterapia dopo un paio di giorni, veniva una dottoressa che ci aiutava a fare esercizi per aprire la gabbia toracica, e questo mi aiutava a capire che stavo migliorando. Quindi mi sentivo sollevato. Poi, anche gli infermieri sono stati molto d’aiuto, specie quando portavano belle notizie. Ma in ospedale il tuo unico pensiero è respirare, appunto. A volte c’era qualche sprazzo di lucidità in cui pensavo di chiamare a casa, ma francamente non era la mia priorità”.

Com’è stato rientrare a casa? Com’è cambiata la tua routine?

“Quando sono uscito ho avuto il divieto tassativo di fare camminate veloci, corse, e sottopormi a sforzi. Mi è stato consigliato di uscire e fare quattro passi, ma che fossero veramente solo quattro. Lo stato di salute è comunque compromesso, poco ossigeno comporta anche problemi al cuore. Per fortuna sono potuto stare in famiglia e non in isolamento, perché avevano avuto tutti il covid, e in più io sono rientrato che ero ancora positivo. Ho anche avuto paura di peggiorare di nuovo, svariate volte, non ero ancora molto lucido. Avevo il fiatone a stare steso, perché poggiavo sui polmoni. Lentamente, però, migliorava la condizione psicologica, ho iniziato a camminare e il cervello si è riattivato. Dopo un po’, sono riuscito a mettermi al computer, pure se per poco tempo. Poi, ho dovuto fare dieta, perché dopo un mese di cortisone, flebo e altri medicinali, anche quell’aspetto si era molto compromesso. Cerco di mangiare il più leggero possibile, perché mangiare oltre un tot mi avrebbe comportato sforzo. Certo, appena sono rientrato ho mangiato una pizza! Adesso, con l’arrivo della primavera, mi sento un po’ più debilitato: cambia il tempo e i muscoli diventano più tesi, e questo di solito non è un problema, ma con dei polmoni non performanti al 100% fai decisamente più fatica, sicuramente devo proseguire con la riabilitazione polmonare. Rispetto al lavoro, mi rendo conto di essere molto lento e spesso distratto: ho dovuto iniziare ad usare i post-it per evitare di scordarmi le cose”.

Dopo un anno di pandemia, la situazione è ancora in bilico. Qual è la tua impressione? E che cosa provi, essendoci passato?

“La comunicazione sul covid è pessima, non è un grande spettacolo quello a cui stiamo assistendo. Dopo averlo preso, le stupidaggini che raccontano ti fanno ancora più ribollire il sangue. Ti rendi conto che sei circondato da comportamenti incredibili, di un’indifferenza tragica. Dopo esserci quasi morto, per il virus, mi rendo conto che ciò che viene detto non rispecchia la verità dei fatti, e mi sembra follia. Bisogna togliere di mezzo l’idea che il covid sia qualcosa che colpisce solo chi sta male e ha patologie, bisogna far luce sul fatto che il covid non sia solo un’influenza. Il covid è fatto di grida disperate nei corridoi del reparto; di caschi per l’ossigeno che a volte non riescono a risolvere; è la paura di morire da solo, in quel letto. È quando vieni portato via. Il covid sono i medici e gli infermieri che sono lì, per te, senza sapere come sei fatto. Allora non possiamo rimanere nell’ignoranza. Quello che posso dire è che ci vuole un attimo, è un terno al lotto, non è che ci vuole molto a capirlo. Se dopo stiamo ancora così, non so veramente dove andremo a finire. Vorrei tanto fare quattro chiacchiere con quello che aveva detto che “andrà bene, ne usciremo migliori”…”

Spero che le parole di Marco siano un monito per tutti coloro che si credono invincibili, che credono che il virus non entrerà mai nelle loro case.

Spero che l’esperienza di Marco ci insegni che, a volte, non basta essere prudenti, perché basta un attimo.

Spero che le parole di Marco ci rimangano dentro, perché, dopo un anno, stiamo ancora così.

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