C’è una fotografia di Malinowski che mi colpisce ogni volta che la guardo.
Su una panca di tronchi, un uomo caucasico in ambiti coloniali stringe tra le mani quello che – almeno a una prima occhiata – sembra uno strumento musicale in terracotta.
Nello scatto, Malinowski non è da solo. Seduti intorno a lui ci sono quattro indigeni. L’espressione sfingea da bianco borghese non lascia trapelare altro se non la contrapposizione tra l’antropologo e un capannello di trobriandesi visibilmente disorientati dalla sua invasione di campo.
Conosco l’opera di Tarabbia e l’ho amata fino all’ottundimento. Per chi, come me, ha il vezzo di reportizzare l’orrore i romanzi di Tarabbia non sono soltanto delle letture obbligate, ma uno struggimento necessario.
Non nego, quindi, che, dopo anni di silenzio, le aspettative risposte ne “Il continente bianco” (Tarabbia A., Milano, Bollati Boringhieri, 2022) erano alte.
Se siano state o meno deluse lo racconterò in questa breve nota di commento, partendo proprio dall’espediente di Malinowski che mi consente di introdurre un argomento importante e che, a mio avviso, aiuta a capire meglio il lavoro condotto da Tarabbia nel suo ultimo romanzo: lo sguardo etnografico.
Credo infatti che non sia un caso che l’autore abbia definito molti dei suoi personaggi degli “osservatori che raccontano”. Pertanto non è un caso che io abbia studiato “Il continente bianco” sfruttando la lente dell’etnografia.
La scelta di un metodo che non riguarda stricto sensu la letteratura deriva in prima battuta dal fatto che la storia narrata ne “Il continente bianco” è ambientata nell’Italia di oggi.
I personaggi, anche quelli mutuati da Parise, si muovono in contesti attuali cosicché il loro studio e il successivo report delle loro azioni sono coniugati al presente. Basterebbe solo questo aspetto per capire che ne “Il continente bianco” è presente uno stacco con la restante produzione, ma farlo porterebbe a una banalizzazione che priverebbe il libro della sua complessità.
Prima di esaminare le faglie de “Il continente bianco” è necessario fare una rapida panoramica sulla continuità con i romanzi precedenti.
Ne “Il continente bianco” sono infatti presenti tutti i cardini attorno a cui ruota l’immaginario di Tarabbia.
Si parla del potere che, per citare Talleyrand, logora solo chi non ce l’ha; dell’esasperazione ideologica dei vinti che, volente o nolente, si trasforma in ferocia e poi, ovviamente, si parla del male.
Di una violenza che Tarabbia non indaga, ma interroga perché i mali subiti e perpetrati dai suoi soccombenti non sono affatto metafisici. Tarabbia scandaglia un male materico declinato in forme che, per quanto sublimate dal bulino della letteratura e da una penna brillante, sono profondamente radicate nel mondo.
Nonostante la profusione delle metafore (per citarne solo una, le saccadi schizoidi e iridescenti che martoriano lo sguardo di Marcello), Tarabbia problematizza la ferocia e lo fa concretamente… così concretamente da descrivere in modo spiazzante la fascinazione che tutti noi – i sani e i salvi – subiamo dal male.
Questo aspetto che ne “Il continente bianco” raggiunge la sua massima forza espressiva mi permette di esaminare le faglie a cui ho fatto cenno in precedenza: la posizione assunta dall’io narrante all’interno del Continente Bianco e poi, a cascata, le difficoltà che affronta chi vive di scrittura.
Mi servirò dell’etnografia proprio per indagare questi elementi che più che di rottura sono consequenziali a un discorso che Tarabbia ha già sviluppato in precedenza e che deriva in parte da una crisi, fittizia o reale che sia – poco importa.
Ne “L’osservazione partecipante: uno strumento di conoscenza della complessità sociale” (Quarta S., Ledizioni, 2020, Milano), Serena Quarta utilizza un’espressione emblematica per introdurre un tipo di osservazione partecipante che viene definita “palese e moderata”: Far parte della scena fuori dalla scena.
Servirsi di questo specifico metodo etnografico consente al ricercatore di procedere con un’ablazione della dicotomia “osservatore/osservato”. Soltanto mediante questa rimozione, gli attori sociali possono interagire e diventare collaboranti.
Ma il ricercatore, pur agendo nel contesto da osservare, non deve farne parte. Lo studioso, per definirsi tale, “è costretto a rivelare il suo ruolo, in modo tale da aumentare il livello di dialogo tra i soggetti all’interno del campo di ricerca” (S. Quarta, 2020).
Così, l’immersione nel gruppo non implica che il ricercatore possa o debba spogliarsi completamente della propria individualità.
La maggiore difficoltà che riscontra chi si avvale di questo metodo d’indagine è proprio questa. Mantenere salda la propria scala valoriale e stabilire un equilibrio su un piano basculante retto da due perni: la parzialità che deriva dall’entrare a far parte di un gruppo e l’imparzialità che impone la curiosità scientifica.
L’io narrante de “Il continente bianco”, alter ego dell’autore, si muove su questo terreno sdrucciolevole.
La capacità di Tarabbia sta proprio nel raccontare in modo lucido e disincantato quanto sia difficile e scomoda la posizione di chi fa parte della scena fuori dalla scena.
E, mentre il Tarabbia fittizio annaspa nel pantano del neo fascismo spinto da una fascinazione morbosa per Marcello Croce, il Tarabbia reale striscia ne “L’odore del sangue” di Parise che, come sostenuto dallo stesso autore, è un organismo vivo (infatti soltanto ciò che vive può opporsi a noi).
Nell’introduzione a “Il continente bianco”, Tarabbia parla del suo lavoro in termini archeologici, ma l’archeologia scandaglia l’antico per ricostruire da tracce e resti componenti ambienti e relazioni sociali.
Per dirla in altre parole, l’archeologia restituisce vita a ciò che è morto o sembra morto.
Al contrario, Tarabbia ne “Il continente bianco” stabilisce un dialogo attuale con Parise e, mantenendo intatta la sua soggettività, si interfaccia con un’opera che è tutto fuorché morta.
Tarabbia partecipa a “L’odore del sangue” ed è da questa partecipazione che nasce “Il continente bianco”.
Pertanto, non siamo di fronte a un approccio archeologico, ma a un lavoro che è frutto di un metodo mutuato dall’etnografia.
Tra i capitoli più interessanti del romanzo ce n’è uno che corrobora in modo significativo la mia chiave interpretativa: l’agguato al negozio dei bengalesi.
L’efferata violenza di cui si parla nel capitolo in questione ha una logica che sfugge a chi non tiene conto della sua valenza simbolica.
Tra le pareti di un market allagato, sotto gli occhi atterriti di due bengalesi, si è consumato un rito di iniziazione: il Tarabbia fittizio è “uscito da uno status in funzione dell’entrata in uno status diverso, talora in modo radicale, dal precedente” (C. Prandi, “Iniziazione”, 1993).
A tal proposito, vorrei concentrarmi su un passaggio, citando proprio l’autore: il Rosso continuava a fissarmi: aveva nello sguardo il disprezzo che il guerriero ha per il borghese. (pag. 87)
Dal buio della memoria spunta di nuovo Malinowski che danza nel suo completo savana tra uomini e donne semi-nudi. Ancora una volta, ci troviamo di fronte al borghese che prende parte alla scena fuori dalla scena; che partecipa alle attività di un gruppo che lo percepirà sempre come un outsider.
Ad ogni modo, nonostante l’evidente distanza tra l’io narrante e i membri del Continente Bianco, il rischio dell’osservazione partecipante resta uno: inmiarsi con l’osservato e, nel caso del Tarabbia fittizio, barbarizzarsi fino ad assecondare l’abisso così da poterlo accogliere e, forse, un giorno, reinventarlo in una forma nuova. Mai bianca né pura: soltanto innocente.
La conclusione – se così possiamo definirla – tratta dalla veloce riesamina di questa particolare superficie di faglia, è che il Tarabbia fittizio non assomiglia a Gioachino Ardytti e non si avvicina neanche ad Andrej Čikatilo.
Il discrimine principale tra i precedenti osservatori che raccontano e l’io narrante de “Il continente bianco” non deriva tanto dalla somiglianza che l’alter ego letterario ha con il suo autore, ma dalla posizione che il Tarabbia fittizio assume all’interno del romanzo.
Anche lui è uno sconfitto come gli altri personaggi che popolano l’universo di Tarabbia, ma la frastagliata terra di confine in cui si muove lo rende più simile al Malinowski dei “Diari” che a Marat Bazarev, l’animale morente che per redimersi interroga gli ammazzati.
Eppure la tragedia dell’etnografo non è l’unico dramma che vive il Tarabbia fittizio.
Ce n’è un altro ancora più radicale: “Il continente bianco” nasce da una crisi e trova in questa crisi la sua forza propulsiva.
Il Tarabbia fittizio è uno scrittore che non ha una storia da scrivere. Così peregrina e pedina dei potenziali personaggi – uno di questi è proprio Marcello Croce – per strappargli dal corpo i lembi delle loro vite.
C’è un falso mito sul processo creativo che sarebbe meglio sfatare una volta per tutte.
La stesura di un’opera letteraria ha poco a che fare con la folgorazione o con l’imbellettamento romantico che trasuda dai discorsi di certi autoruncoli da Autogrill.
Lo scrittore non è un San Paolo, ma un cacciatore. Si apposta tra le felci; aspetta la preda nascosto dietro gli alberi; spesso spara a vuoto; quando non trova il cervo, lo cerca e, una volta scovato, lo strazia per nutrirsene o farne trofeo.
Thomas Bernhard aveva appeso sul suo letto un fucile e, se il Tarabbia fittizio ne avesse avuto uno, probabilmente lo avrebbe imbracciato per inseguire Anna che, nel corso del romanzo, si scoprirà avere un’unica colpa: non essere abbastanza interessante.
Così, come il cacciatore lascia liberi gli animali più piccoli, lo scrittore si sbarazza delle storie che non funzionano.
A seguito della dipartita di Anna, l’io narrante proverà un profondo senso di colpa per non averla salvata, ma, nell’economia del romanzo, Anna (tanto quanto Silvia) non soltanto non poteva, ma non doveva essere salvata.
L’unica morale che ci offre questa favola senza eroi è che gli scrittori, per sopravvivere alla damnatio memoriae, devono essere spietati e, nonostante una naturale repulsione, devono lasciarsi ammantare dal male perché “scrivere vuol dire sopportare il dolore degli altri e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio”.
In Italia, oggi, nessuno quanto Andrea Tarabbia sa guardare l’abisso senza il timore che il suo sguardo possa essere ricambiato. E questa forza viscerale, crudele e atavica è prerogativa unica di chi fa grande la letteratura.
Nata a Cosenza alla fine del 1994, trapiantata a Milano da diversi anni.
Laureata in Filosofia e specializzata in Scienze Filosofiche, esperta di Rivoluzione Francese e vincitrice di numerosi premi letterari, ha collaborato a soli 19 anni ad una nuova traduzione di un’opera di Kant, è un’accanita sostenitrice della ricerca contro i tumori e attualmente si occupa di risorse umane e della stesura del suo primo romanzo.
Appassionata di storia, scrittura, letteratura e fotografia!