"Il limite in una società consumista e capitalista è avvertito come uno spettro maligno da evitare. Non è un’opportunità ma un fantasma minaccioso a cui sfuggire instancabilmente. Per superare il capitalismo è necessario recuperare il limite. E non è un caso che il capitalismo abbia eliminato dal proprio orizzonte l’idea della morte."

Durante la pandemia sono state diverse le immagini a provocare indignazione nel mondo dei social. Fra le maxi risse ad appuntamento nelle piazze, dirigenti sanitari pronti a contrabbandare vaccini e una sacrosanta crisi di Governo – che ci sta sempre bene – scorre però tutta una sequela di notizie assegnate all’infausto destino del disinteresse totale. Tra queste, l’apertura nel giorno del Black Friday del megastore Maximo sulla Laurentina; inaugurazione avvenuta all’insegna degli assembramenti e della violazione di ogni regola di buon senso. Sia chiaro, oramai, al di là della pandemia, siamo piuttosto abituati ad assistere a certe scene. Come durante le aperture degli Apple store: una sottospecie di Festa di San Firmino in versione liberista, dove migliaia di persone si lanciano in rincorse da centometristi per assistere nello stordimento da sovraeccitazione al sanguinamento del proprio portafogli. 

Dov’è la notizia? Semplicemente nel fatto che l’uomo occidentale è talmente votato all’ideologia consumista, figlia primogenita di quella neocapitalista, da non riuscire a desistervi, come in una prova di fede, neanche quando la sua fedeltà impone la messa a repentaglio della propria e altrui incolumità.

Assembramenti durante l’apertura del centro commerciale Maximo a Roma

Neocapitalismo e società consumista

Quel che deve essere chiaro è che quello capitalista-consumista non è semplicemente un modello socioeconomico, ma rappresenta soprattutto una vera e propria ideologia che impone, come tutte, un proprio paradigma comportamentale, espressione di una visione del mondo attraverso la quale decodificare la realtà circostante.

Alla base della dottrina neoliberista che ha trovato in Friedrich von Hayek e Milton Friedman, i suoi fondatori teorici, e in Ronald Reagan e Margaret Thatcher i suoi principali esecutori politici, vi è l’idea, spacciata come scientifica e imparziale, ma infidamente ammiccante verso una certa visione politica e sociale, che il mercato sia un sistema capace di autoregolamentarsi e che pertanto lo Stato costituisce un male necessario, mal tollerato quanto inevitabile. Alla base di quest’idea vi è (l’illusione?) di un individualismo radicale: lo Stato non deve intervenire nell’economia, perché interferendo nella sfera economica, quale vero spazio pubblico dei privati, lederebbe la libertà dei singoli individui. Tutto ciò, però, è possibile soltanto in quanto si assuma come postulato l’inesistenza della società: vi sono soltanto privati cittadini, che perseguono i loro interessi personali attraverso relazioni di carattere privatistico – contrattuale.

In realtà, questo postulato è solo subdolamente assunto come vero dai suoi stessi teorici. Infatti, con buona dose di ipocrisia, strizza l’occhio ad una sorta di darwinismo sociale: il mercato è una giungla dove sopravvive il più forte, il quale non può essere condannato perché tale. Perciò le disuguaglianze sociali sono necessarie e vanno controllate solo al fine di evitare rivoluzioni o sommosse.

Ma come si riflette tutto questo sulla nostra vita quotidiana?

Determina il consumismo. Come già evidenziato, non si tratta semplicemente di un modello politico, sociale ed economico, quanto di un paradigma di valori, codici, regole di linguaggio attraverso cui noi interpretiamo la realtà. Questa è la forza del neoliberismo. Consumo, prodotto, lavoro, produzione, marketing, ciclo, utile, guadagno, mercato e via discorrendo, costituiscono elementi del nostro linguaggio che, come tutti i linguaggi, esprimono una coerente visione dell’esistenza di ciascuno.

Sin dalla nascita ci formiamo, in un percorso ventennale, alla vita lavorativa. Come grida in un tumulto di terrore Zampanò, ne La strada di Fellini, “io devo guadagnarmi la vita”. Ciascun individuo occidentale del ventunesimo secolo è perfettamente inserito nella dinamica del ciclo lavoro-produzione-consumo: lavoriamo per produrre, produciamo per consumare, consumiamo per consumare.

L’uomo del ventunesimo secolo ha intimamente aderito ad una visione nichilista: riteniamo che «solo adottando in maniera metodica il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere» (Galimberti). Tutto questo nonostante le ricorrenti crisi economiche, ambientali, l’aumento delle diseguaglianze sociali, la crisi democratica ci suggeriscano il contrario. Le cose che consumiamo vengono distrutte con la stessa repentinità con cui vengono prodotte. Perché? Perché, affinché il sistema economico di fondo possa consacrarsi all’immortalità, è necessario garantire la mortalità più breve possibile di ogni prodotto che viene immesso nel mercato. L’obsolescenza programmata delle cose di cui ci circondiamo viene poi incrementata dal meccanismo pubblicitario e delle tendenze che rendono socialmente inutile ciò che materialmente ancora lo è: sostituiamo telefoni, indumenti, televisioni per indole al consumo, non per (dis)utilità.

La costante produzione di consumo “fluidifica” tutto ciò che ci circonda contribuendo a produrre “un mondo da buttar via” (Günther- Anders). Le cose di cui ci circondiamo nell’ansia da consumo non hanno sufficiente consistenza per diventare uno sfondo permanente entro cui poter affermare la nostra identità. Ecco perché si parla di perdita di valore: se non riusciamo a riconoscere il valore intrinseco delle cose, al di là di quello di mercato, tutto ciò che ci circonda perde la sua identità, la sua solidità. E se tutto è apparenza, immagine pronta a dissolversi nel consumo distruttivo, allora nulla è reale: non c’è destino che possa diventare destinazione, perché quella destinazione non esiste, è vuota. È per questa ragione che, tendenzialmente, le analisi statistiche descrivono il mondo occidentale come mediamente più “infelice” del resto del pianeta, anche quello meno evoluto.

Capitalismo, l’oppio dei popoli

Il capitalismo si basa sull’idea del sogno americano: “se lo vuoi ardentemente e fino in fondo tutto è possibile, dunque volere è potere”; “non c’è limite a quello che puoi realizzare”; oppure, come nella pubblicità delle Adidas, più modestamente, “impossible is nothing”. Ciò su cui fa leva è l’intimo desiderio umano verso l’immortalità e l’infinito, che si traduce nel desiderio profondo riflesso di una contraddizione insanata e insanabile: voler essere diversi da come si è, pur essendo inevitabilmente come siamo.

E le nostre possibilità di colmare le distanze di quella contraddizione sono vieppiù aumentate, non a caso la stessa pandemia ce lo ha confermato. Possiamo annullare lo spazio e le distanze in tempi brevissimi, possiamo accedere a qualsiasi informazione in pochi secondi, possiamo avere tutto ciò di cui abbiamo bisogno con un tap sul telefono: cibo, elettrodomestici, telefoni, regali di ogni genere. Ma in un mondo in cui i desideri sono degradati a meri bisogni, in cui tutto, persino le persone, hanno perso consistenza e durevolezza, da un mondo in cui possiamo tutto, cosa voglio veramente?  L’infinita varietà di alternative che sono poste davanti a noi, come topi da laboratorio stimolati continuamente dall’elettroshock, ci induce alla falsa convinzione che estendendosi le nostre possibilità si siano estese di conseguenza le nostre capacità di scelta.

Per dirla con le parole del cantante piemontese, Willy Peyote, «la chiami libertà se ti lasciano scegliere la tua prigione».

Sedotti e drogati dalla brama di infinito, l’uomo occidentale sta come naufragando nel vortice privo di senso di un vuoto esistenziale. Ciò peraltro è profusamente documentato da quei dati che registrano un aumento nell’incidenza di fenomeni come la depressione o l’ansia, dal consumo di psicofarmaci, dalle malattie connesse ai fenomeni di stress, ma anche dai banali rapporti sull’insoddisfazione sociale.

Come ha sottolineato l’economista francese, Serge Latouche, siamo tutti complici di questo, la colpa non è solo dei potenti, e l’arma contro questo capitalismo non può risiedere unicamente nelle politiche di welfare, nella giustizia redistributiva, nell’equità fiscale, nella transizione green dell’economia, ma in una sfera più profonda e personale: l’accettazione del concetto di limite.

Il limite in una società consumista e capitalista è avvertito come uno spettro maligno da evitare. Non è un’opportunità ma un fantasma minaccioso a cui sfuggire instancabilmente. Per superare il capitalismo è necessario recuperare il limite. E non è un caso che il capitalismo abbia eliminato dal proprio orizzonte l’idea della morte. Anche linguisticamente parlando ciascuno di noi la colloca nel “si” non nell’io: si muore, non io muoio; come se la morte fosse qualcosa che non ci riguarda direttamente. Eppure, una vita senza morte perde il suo significato e il suo valore di possibilità, di opportunità, di senso. D’altronde, come sosteneva sempre Heidegger, se ci liberiamo della morte ci priviamo della capacità di capire il senso della nostra libertà. In questo contesto l’accumulazione spasmodica di capitale e di beni di consumo è il riflesso di un disperato tentativo di colmare il profondo vuoto esistenziale del nostro tempo.

Sebbene il consumismo possa evocare l’illusione della miglior vita possibile, liberandola dalla morte, l’esistenza autentica comporta l’accettazione della nostra comune e inevitabile finitezza. Accettare ciò, infatti, significa progettare una vita consapevole senza lasciarsi travolgere da quell’inconsistenza del consumo mondano che ribalta, sovverte e annulla l’ordine dei valori esistenziali di ciascuno.

Vivere altrimenti significa dare alla nostra vita un prezzo. Da pagare.

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