Empatia, comunicazione, socialità. Quante volte avete pensato che la nostra generazione stesse andando nella direzione esattamente opposta rispetto a queste tre categorie? Al di là della parentesi pandemica, in cui più o meno tutti hanno riscoperto l’importanza – a tratti, la necessità – della condivisione con l’altro, dobbiamo ammettere di non essere dei campioni dell’interazione sociale.
Si potrebbe parlare, in questi casi, di carenze educative e, dunque, di vuoti che possono essere colmati. Questione di scelta, la nostra. E quelli che, tra noi, la possibilità di scegliere non ce l’hanno? Perché è necessario sapere che ci sono persone per cui la parola empatia è un significante senza significato, un vocabolo privo di sfumature, e il “comunicare” è qualcosa di lontano, diverso.
Queste persone vengono comunemente definite “Asperger” e, oggi, ricorre la loro giornata. Per chi non lo sapesse o si fosse interessato alla questione solo dopo aver letto che “Greta Thunberg è una di loro”, la sindrome di Asperger si inserisce all’interno della categoria più ampia dei disturbi dello spettro autistico. Più esattamente, si tratta di un disturbo dello spettro autistico di livello 1, senza compromissione intellettiva e del linguaggio, per questo giudicato “ad alto funzionamento”.
Caratteristiche peculiari sono una comprovata difficoltà rispetto alle abilità sociali e comunicative (spesso si fatica ad instaurare un contatto visivo con l’interlocutore e la comprensione del linguaggio è solo letterale) e l’ interesse spiccato verso tematiche che includono la meccanicità, ovvero capacità di memorizzare fatti di trasmissioni televisive, carte geografiche, etc.
Al di là, però, di queste semplici nozioni di pseudo neurologia, c’è un mondo da scoprire. Anzi, posso proprio ben dirlo, c’è una vita da scoprire.
In occasione di questa giornata, infatti, non volevo limitarmi a riportare le solite frasi di circostanza, quelle che ci ricordano una volta l’anno che forse non siamo i soli in questo universo e che varrebbe la pena, ogni tanto, di provare ad incontrare anche l’altro.
Io, oggi, vorrei raccontare una storia. Una di quelle storie fatte di persone vere, di emozioni sentite, di vita vissuta. Una storia normale, che proprio per questo merita di essere raccontata. Una storia, questa in particolare, di una mamma per tutte le mamme.
È il pomeriggio del 9 febbraio quando incontro per la prima volta Sonia, la madre di un giovanissimo ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger. Questa giovane donna con lo spirito da combattente – lo si capisce fin dai primi scambi di battute – mi accoglie con un sorriso e mi chiede subito se “so già dove voglio andare a finire”.
Le rispondo con sincerità: “non lo so”.
Tutto ciò che viene dopo è stata, per me, una splendida lezione di vita. Mi auguro, con tutto il cuore, che possa esserlo anche per voi.
Quando ha capito che suo figlio presentava questi disturbi?
“Prestissimo, tra i 14 e i 16 mesi, quando ancora si parlava di “disturbo generalizzato pervasivo”, dal momento che, essendo così piccolo, non poteva sottoporsi ai test che poi ne avrebbero dato la diagnosi differenziata. Spesso ci se ne accorge dopo (intorno ai 3-4 anni) perché i pediatri sono molto attendisti: se non parla aspettiamo che parli, nella convinzione che “ogni bambino ha i suoi tempi”. Di fatto, poi, sono quasi sempre le maestre d’asilo ad accorgersene, abituate a cogliere sfumature che il genitore inesperto (senza metro di paragone rispetto ad altri bambini) non rileva.
Noi ce ne siamo accorti presto perché io avevo la forte sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Vedevo in mio figlio, ad esempio, dei movimenti involontari delle gambe, il contatto visivo era assolutamente assente e non proferiva neanche una lallazione. Ho deciso che lo avremmo portato da un medico e così ho fatto: da lì è iniziato il nostro percorso.”
Quando è stato comunicato tutto ciò al bambino?
“Gli è stato comunicato quando frequentava la quarta elementare perché, su indicazione del neuropsichiatra, dal momento in cui il ragazzo sviluppa un cognitivo in grado di comprendere quanto viene detto, è fondamentale spiegare la diagnosi. Se ciò non viene fatto si corre il rischio di dare delle risposte compensative sbagliate: ad esempio, nel contesto scolastico, il fatto di essere diverso dagli altri per un bambino di 7-8 anni non significa “ho un disturbo neurologico” ma equivale a “sono pazzo”. Più queste risposte compensative si consolidano nella psiche del bambino, maggiore diventa la difficoltà per i terapisti nel tentare di disinnescarle. Attraverso la comunicazione della diagnosi viene quindi confermata la diversità, ma viene spiegata. Questo, secondo i neuropsichiatri, (e ho potuto constatare di quanto ciò sia vero) elimina quasi completamente le ansie precedenti perché non ci sono più domande.”
Come viene vissuta la fase dell’accettazione?
“Da genitore puoi solo cercare di fare in modo che tuo figlio abbia tutti i mezzi per sviluppare le proprie competenze. Noi abbiamo fatto tanto, è vero, ma il “lavoro” lo ha fatto lui.”
Che tipo di bambino è stato, quindi, suo figlio? È vero che, nella maggior parte dei casi, chi è affetto da questa sindrome tende ad accrescere interessi specializzati?
“Sì, soprattutto nella cura per il dettaglio. Mio figlio in prima elementare sapeva tutta la storia dell’antico Egitto in ogni sua minuzia. Ciò avviene poiché generalmente quasi tutti presentano una difficoltà motoria, il che implica che se hai 6 anni e vai in cortile non giochi a pallone con gli altri bambini perché hai sempre bisogno di organizzare il pensiero del movimento. Laddove viene meno l’attività ludica-motoria, utilizzano tutta l’energia che hanno per intrattenersi con la sfera del cognitivo.”
Anche dal punto di vista della socialità è così? Si fatica ad instaurare una relazione empatica?
“Tendenzialmente sì, anche se con il tempo possono esserci dei progressi considerevoli. Rimane comunque una scarsa capacità di autoregolazione dell’umore: si è felicissimi o, al contrario, tristissimi. Spesso, nel secondo caso, quando non c’è una “misura della tristezza”, si fatica a contenere il dolore e ciò può condurre ad una forma di autolesionismo. Il dolore può anche essere assolutamente minimo e può essere manifestato anche “semplicemente” tirandosi una ciocca di capelli o graffiandosi. È chiaro che un atteggiamento autolesionistico, anche se in forma lieve, preoccupa sempre un genitore, specialmente se si immagina una causa di sofferenza troppo grande da affrontare. Sembrerà brutale come idea, ma bisogna convivere con il pensiero che nessuno può impedire ad un’altra persona di farsi del male. È importante, da questo punto di vista, capire che possono chiedere aiuto”.”
Ha mai percepito il “peso” di avere un’etichetta?
“Diciamo che me ne frego. L’ignoranza è una realtà con cui non intendo combattere. Ci sono guerre per cui vale la pena e questa non è tra quelle. Posto che degli estranei poco mi importa, ho accusato il colpo maggiormente all’interno della famiglia allargata (zii, nonni, ecc.), in cui all’inizio c’è stata la negazione per non affrontare un dolore. Trovo che sia inutile, perché se neghiamo e viviamo in questa sorta di “immobilismo”, le cose non cambiano e non si risolvono. La verità è che tutti siamo tendenzialmente più pronti ad affrontare una disabilità fisica e non mentale. Socialmente non siamo in grado di immedesimarci”.”
Suo figlio, invece, le ha mai palesato di sentirsi limitato in qualcosa per via della sua condizione?
“Al momento no, anzi, è estremamente proiettato verso il suo futuro. L’anno prossimo inizierà a frequentare il liceo scientifico ed è assolutamente entusiasta di ciò. Certamente ci saranno delle difficoltà, ma gli forniremo tutti gli strumenti per andare avanti. Lui è sicuro, perlomeno fino ad ora, di potersela giocare sempre e sa anche che se qualcosa non funziona la affrontiamo, la cambiamo. All’inizio non è stato facile, ma è talmente tanta la soddisfazione rispetto a ciò che lui, per sé stesso, è riuscito ad ottenere, che tutti i nostri sacrifici e le nostre ansie non hanno più un peso.”
Mi viene in mente, sentendola parlare, che a livello sociale conti molto anche il discorso economico…
“Quello è il discorso: se mio figlio sta così bene è perché ce lo siamo potuti permettere. A livello sociale, certo, c’è l’aiuto dell’affido diurno che si può ottenere tramite il servizio sociale, ma si potrebbe fare molto di più. Ad esempio mio figlio non parlava: era evidente che avesse bisogno di un percorso logopedico intensivo; io, con la prescrizione del neuropsichiatra, ho presentato le solite domande nei centri sanitari pubblici, ma quando è toccato a noi (erano passati 2 anni dalla mia richiesta), mi è stato detto che avevamo a disposizione solo 16 incontri. Mio figlio ne ha fatti 3 alla settimana per 2 anni.
Ironicamente (e paradossalmente) ti devi poi anche sentir dire che è fondamentale la tempestività dell’intervento. Purtroppo, anche laddove vengono spesi dei fondi, vengono spesi male. L’esempio classico è l’insegnante di sostegno. Molto spesso non ne sanno nulla o molto poco, eppure le graduatorie sono utilizzate ancora come accesso facilitato alle cattedre. Ci sono addirittura scuole in cui l’insegnante di sostegno non c’è e viene sostituito indebitamente dall’insegnante di ruolo, con una conseguente difficoltà sia da parte di quest’ultimo che da parte del ragazzo autistico. Per non parlare delle famiglie, che non hanno la certezza di aver lasciato il proprio figlio in un luogo in cui hanno le competenze adatte per gestirlo.”
Si è mai pentita dei sacrifici fatti, ad esempio a livello lavorativo?
“Mai. Mio figlio è nato prematuro e quando ero in ospedale ho visto bambini di mezzo chilo o 600 grammi. Ricordo che fossi disperata perché non volevo che il piccolo affrontasse la fase di rianimazione. Un giorno è arrivato il medico dicendomi: “Lei mi ha stufato. Venga a vedere i bambini che stanno male davvero”. Ho visto mamme a cui è stato comunicato che con buona probabilità i figli non avrebbero camminato, parlato o sentito. Quelle mamme avevano un unico spirito… far respirare il proprio bambino, poi vediamo. È una sensazione che ti esplode nello stomaco, non lo si può capire se non lo si prova. Il mio compito era quello di farlo stare meglio, tutto il resto è passato in secondo piano.”
Un’ultima domanda. Alla fine di tutto, c’è un insegnamento che ha tratto dalla sua esperienza? E se c’è, le piacerebbe dare un consiglio a tutti coloro che potrebbero affrontare la stessa situazione?
“Se c’è una cosa che ho imparato è che bisogna seguire, a tutti i costi, l’istinto e non la paura. Sono due cose diverse: anche quando crediamo che l’istinto ci dica di star fermi, non è così. Quella è la paura, che ci fa rimanere bloccati. Ma bisogna andare avanti, non c’è un piano B, non puoi mettere in un cassetto una cosa così, non puoi fare finta che non esista. La vita è una lotta ma bisogna guardare avanti, sempre, a prescindere da tutto.”

Scorpione nell’anima, classe 1996, nasce a Cosenza e atterra a Torino.
Specializzata in Scienze del Governo, curiosa del genere umano e di tutto ciò che è cultura, studiosa dei fenomeni di mutamento politico ed economico-sociale in una prospettiva multidisciplinare, aborra l’autoreferenzialità del sapere, il qualunquismo, e le questioni che non vengono analizzate a dovere.
Pallavolista a livello agonistico, aspira a diventare docente universitaria e giornalista.
Appassionata di filosofia politica, dibattito, sport, viaggi e mondo viticolo… per diventare presto sommelier!