Da poco trascorso il primo maggio, la festa dei lavoratori.
Tanti i temi che riaffiorano puntualmente in questa data emblematica, carica di significato e di valore storico.
Ma cosa si intende oggigiorno con il verbo “lavorare”?!
Recenti fatti di cronaca riportano in auge, tra alcuni, la tematica della poca voglia di lavorare e del poco spirito di sacrificio ed abnegazione specie dei giovani. Questi stessi riescono, addirittura, a screditare le pretese retributive da parte di chi si interfaccia – alle prime armi, certo – con nuovi aspetti lavorativi.
Una follia senza pari.
Non ci dev’essere ipocrisia: la moneta è merce di scambio per la sopravvivenza e la dignità umana, rappresentando, inoltre, un incentivo mostruoso rispetto alle prestazioni sul posto di lavoro.
Senza dimenticare il fatto che un’adeguata retribuzione è un sacrosanto diritto del lavoratore.
Eppure, anche questo non è tutto.
Esiste una linea sottile, come si suol dire, tra il lavorare per vivere e il vivere per lavorare.
Attualmente, il complesso mercato del lavoro fa ancora i conti con una domanda di molto superiore all’offerta.
Ciò si estrinseca non solo nella quantità, ma anche nella qualità della stessa.
Vi è, infatti, una sostanziosa discrepanza tra quanto auspicato dal lavoratore e quanto offerto dal datore di lavoro.
Cos’è allora che manca per pareggiare questi conti?
Scendendo più nel dettaglio, volendo dare una taglio pratico alla questione, abbiamo due punti di vista da analizzare.
Da una parte il bisogno/la volontà di trovare un lavoro adeguato alle proprie mansioni/funzioni acquisite negli anni, attraverso qualsiasi tipo di percorso; dall’altra la necessità di ricercare qualcosa che permetta di vivere in maniera dignitosa (come Costituzione vorrebbe), ma che, al contempo, dia spazio al poter vivere realmente.
Sinteticamente: trovare il lavoro giusto non è affatto semplice, si sa, per tutta una serie di ragioni che sarebbe difficile sciorinare, in maniera dettagliata, in questa sede.
Ciò però che ci preme di più, come generazione di giovani che si approcciano, in questi tempi, al mondo lavorativo è: riuscire a bilanciare la qualità del lavoro (con un occhio importante al fattore retributivo) con la qualità della vita.
Per farla breve, non si può lavorare 5 giorni su 7 per 8/9h, guadagnando 5/6 € l’ora.
È una mancanza di rispetto nei confronti dell’individuo, considerando il breve lasso di tempo quotidiano dedicabile al resto della propria vita (9 ore di lavoro, più 1 ora di pausa pranzo, più un’ora di spostamenti necessari, oltre le ore adibite al sonno notturno).
Da brevi, veloci calcoli matematici (la giornata è formata da 24h), si evince facilmente quanto poco tempo residuo rimanga per potersi dedicare a qualsiasi altro aspetto della propria esistenza.
Se poi si volesse affrontare un discorso feriale, si dovrebbe aggiungere che, oltre alle festività comandate, cioè le date “rosse” sul calendario, mediamente si dispone di 4/5 settimane di ferie.
Il che, normalmente, comporterebbe il dover lavorare 330 giorni l’anno su 365, escludendo dal computo il giorno libero settimanale di cui solitamente si dovrebbe disporre.
Insomma il gap pare abbastanza sostanzioso.
Anche se si venisse retribuiti leggermente di più, rispetto a quanto prospettato dalle statistiche, a cosa servirebbe, se quegli stessi guadagni non riuscissero ad innalzare la qualità della vita?
C’è da operare una scelta, lavorare per vivere o vivere per lavorare.
Dati gli insormontabili costi della vita quotidiana, data la sempre più difficile possibilità, per un giovane soprattutto, di poter lavorare vicino casa o nella propria città d’origine, si può tranquillamente concludere che: la vita lavorativa non è affatto adeguata alla qualità di vita alla quale si dovrebbe aspirare.
Il tempo per i propri interessi, hobby, affetti, cure per la propria salute è realmente sotto la soglia del possibile.
In altri termini si dovrebbe rallentare un po’.
Le proposte potrebbero essere quelle di: adeguare gli stipendi al costo della vita così come le ore di lavoro alla reale ed effettiva capacità di produzione di un essere umano, aumentare la quantità di ore libere, redistribuendo la mole di lavoro su più persone e investire sul capitale umano per aumentare la produzione senza dover aumentare la quantità di lavoro per ogni singolo individuo.
Le innovazioni in tal senso esistono già in diversi Stati europei.
I Paesi del Nord Europa, come Olanda, Belgio e Finlandia hanno, di recente, approvato la cosiddetta settimana lavorativa breve, fino al giovedì, con un massimo di ore lavorative che non vada oltre le 6/7 quotidiane effettive.
A ciò si è adeguata anche la Danimarca, da sempre il primo Paese al mondo per qualità della vita.
La Danimarca è sinonimo di flessibilità contrattuale e di sicurezza sociale. I lavoratori hanno diitto a 5 settimane di ferie (minimo) e a diversi sussidi. In questo Paese i lavoratori svolgono la loro attività lavorativa per 33 ore alla settimana e lo stipendio annuale ammonta a 35.000€.
Spostiamoci ora in Norvegia: qui le leggi sul lavoro non solo sono tra le più elastiche al mondo, ma anche in questo Paese la preferenza dei lavoratori ricade sul part time, diffuso soprattutto tra i più giovani. Inoltre, i dipendenti diventati mamma e papà da poco, possono usufruire di una riduzione del monte orario lavorativo. In generale i lavoratori hanno diritto a 43 settimane di congedo parentale e a 21 giorni di ferie retribuite. In Norvegia quindi, a 33 ore di lavoro alla settimana, corrisponde un reddito annuo di 33.000€ circa.
Ma il Paese in testa nella classifica Ocse è l’Olanda. È infatti questo il territorio dove si lavora di meno, ovvero solo 4 giorni alla settimana (con una media di 29 ore di lavoro) e dove i lavoratori portano a casa uno stipendio annuale che si aggira intorno ai 35.000€. Anche in Olanda il part time è molto diffuso e non mancano congedi parentali, ferie pagate, assistenza medica e benefit vari.
Se non ci si rende conto del fatto che questo non è un discorso da “fannulloni vagabondi”, ma da persone che vogliono vivere e non sopravvivere, allora non ci sarà soluzione né cura per il malessere e l’insoddisfazione personale.
Nasce a Cosenza nel ’94.
Laureato in Giurisprudenza all’Università della Calabria, ha completato un Master di II livello presso lo stesso ateneo in Management delle Amministrazioni Pubbliche.
Lavora sodo per ottenere l’abilitazione come avvocato ed è un accanito divoratore di libri.
Appassionato di letteratura, filosofia, scrittura e sport, soprattutto calcio e padel!