“Game over”. Il lato oscuro dei social network

"Si parla di giochi, di sfide e livelli, proprio come se fossimo in un videogioco. Tuttavia, in ballo, c’è la vita di persone reali. Inutile negare che di questi tempi il confine tra “virtuale” e “reale” sia sempre più labile, ma esso esiste e non possiamo dimenticarcene."

“Provate pure a credervi assolti,
siete lo stesso coinvolti”

Così scriveva Fabrizio De Andrè nella sua “Canzone del Maggio” ed è stata esattamente la prima cosa che ho pensato ieri, quando tutti abbiamo appreso la notizia della tragedia che si è consumata a Palermo.

Una bambina di soli 10 anni si è soffocata utilizzando una banalissima cintura, a seguito di una challenge lanciata su TikTok, denominata “Blackout challenge”.

“Fatale è risultata la folle ed estrema sfida lanciata sui social”, scrivono i giornali, perché la piccola non ce l’ha fatta. Il blackout, dunque, si è verificato per davvero.

Inutile riempire doviziosamente la vicenda di ulteriori dettagli. Inutile farlo soprattutto perché non si tratta del primo caso isolato, per cui provare sgomento e paura. Si tratta dell’ennesimo, inquietante, “gioco” online finito in tragedia. La prima volta nel 2016 (lontano, vero?) con la famosa  “Blue Whale”, challenge nata in Russia che prevedeva una lista di cinquanta regole, il superamento di cinquanta step per arrivare all’ultimo, quello decisivo:

Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.”

E un ragazzino salta nel vuoto. Game over.

E stata poi la volta di “Jonathan Galindo”, il “Pippo umano” che utilizzava l’immagine di Pippo della Walt Disney per interagire con i più giovani sulle varie piattaforme social . Fa ridere? Neanche per scherzo, specie se consideriamo che ad essere l’artefice del suicidio sia stato un bambino di 11 anni di Napoli, che avrebbe lasciato ai genitori un biglietto con su  scritto “Mamma e papà, vi amo. Ora devo seguire l’uomo col cappuccio nero. Non ho più tempo. Perdonatemi”.

Il gioco, anche in questo caso, prevedeva una serie di sfide volte ad incoraggiare atti di autolesionismo che culminano con l’atto estremo, il suicidio.

Si parla di giochi, di sfide e livelli, proprio come se fossimo in un videogioco. Tuttavia, in ballo, c’è la vita di persone reali.

Inutile negare che di questi tempi il confine tra “virtuale” e “reale” sia sempre più labile, ma esso esiste e non possiamo dimenticarcene.

Com’è possibile, mi chiedo, che si arrivi sempre troppo tardi, che non si possa prevenire piuttosto che curare, o peggio compiangere, come in questi casi.

Com’è possibile, insisto, che di fronte a notizie come quella di ieri l’unico pensiero sia sempre “Che tragedia!”, invece di provare anche solo ad immaginare che quella tragedia poteva essere evitata.

Io, lo ammetto, mi sono sentita colpevole. Sicuramente responsabile di continuare a vivere nell’immobilismo sociale, nel mutismo di una generazione che non si è resa conto (o finge di non rendersi conto) di essere protagonista di una spaventosa crisi cognitiva, di cui i social sono innegabilmente parte in causa.

Tutti sono consapevoli degli innumerevoli e, talvolta, anche gravi (cosa c’è di più grave dell’istigazione al suicidio?) rischi che comporta la rete, eppure i vuoti giuridici sono ancora oggi tanti, troppi. I fatti di cronaca (dal cyberbullismo all’hate speech) ci segnalano inequivocabilmente che non si è fatto abbastanza e che le nuove frontiere del diritto dovrebbero tenere conto di questi temi se vogliono continuare a svolgere una funzione performativa sulla società.

Non si è fatto abbastanza, dunque, ma forse non si è neppure detto abbastanza, e questo è ancora più grave, a mio avviso.

Non è forse giunto il momento, per i giovani della generazione Z che “non conoscono una vita che non sia interconnessa”, come li definiva Zygmunt Bauman, di pensare seriamente ad un’educazione e ad un modello di apprendimento che tenga conto dell’importanza dei social media? Un modello, per l’appunto, cognitivo che ne mostri limiti e opportunità? Benefici e minacce?

Quale altra tragedia dobbiamo aspettare per rendere attuale il bisogno di adattare i processi educativi in funzione di un’era digitale in continuo mutamento?

Me lo chiedo perché, con tutta l’onestà di cui sono capace, non vorrei mai che il lockdown sociale si trasformasse, presto o tardi, in un lockdown mentale.

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