Follia e pregiudizio, Merini e Bonansea: un confronto

"Dopotutto, osservando a confronto la storia della Merini e della Bonansea, seppur abbiano lottato contro pregiudizi e abbiano superato ostacoli molto diversi tra loro, si intuisce che la forza d’animo, prima o poi, viene comunque ripagata. Essere precursori è sempre complesso, ma dà immensa forza a quanti decidono di intraprendere quella stessa strada."

Da molti, l’eccentricità viene definita follia.

La follia è elogiata e considerata linfa della creatività.

La creatività, a parere di chi scrive, la possiedi fin dal tuo primo respiro.

L’animo passionale, continuamente in lotta contro il mondo, è considerato folle – una molecola impazzita da dover tenere sotto controllo, prima che invada il resto dell’essere.

Ma badate bene: senza quella piccola, insignificante molecola, l’intero sistema non riuscirebbe a funzionare perché si adeguerebbe al vivere quotidiano, senza regalare alcuna inaspettata emozione.

Sin dalle prime letture liceali, ho sempre pensato che l’animo di Alda Merini fosse un turbine di emozioni, capaci di gettarti sia nel buio più profondo che nella luce più calda che si è mai riusciti a trovare nella vita.

I suoi versi, così estremi e così passionali, riescono a farti immedesimare nel suo animo tormentato.

Perché, come ben sappiamo, solo una psiche tormentata può generare una poesia travolgente.

La Merini non è l’intellettuale che tutti si aspettano.

Non ha una vita agiata, la sua esistenza è connotata da una serie di fallimenti, di sconfitte, di sentimenti non ricambiati che la fanno sprofondare in un eterno oblio causa di un ingiustificato internamento.

Nonostante sia figlia della guerra, per nostra fortuna, sopravvive ai bombardamenti e ritorna nella sua amata Milano, culla della sua estrema genialità.

La Merini scopre l’amore e il matrimonio in giovane età, come era fondamentalmente di uso all’epoca. L’amore, conosciuto da lei, si rivela impetuoso, ma anche duro e fragile – come d’altronde è l’essere umano.

Alda, sin dall’età di 15 anni, ottiene numerosi riconoscimenti in ambito poetico e letterario.

La sua genialità viene compresa dal resto del mondo, ma non da chi le è vicino.

Diventa madre di quattro figlie, maternità che le viene quasi negata, dato che le stesse le vengono portate via sin da subito.

A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono”.

È difficile vivere con l’animo in tempesta, essere innamorati, essere madre ed essere una delle grandi promesse della poesia italiana.

È difficile essere donna in quell’epoca, essere vittima di soprusi e di pregiudizi dettati solo dalla voglia di non essere come tutte le altre, di essere semplicemente se stessa, giusto o sbagliato che sia.

Esternare il proprio io attraverso l’arte non è adatto ad una donna e ad una madre.

Amai teneramente dei dolcissimi amanti senza che essi sapessero mai nulla. E su questi intessei tele di ragno e fui preda della mia stessa materia. In me l’anima c’era della meretrice della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto un’isterica”. (“La gazza ladra”, 1985)

Alda, con il cuore e la mente in tempesta, è etichettata come “folle”. Viene ricoverata in un ospedale psichiatrico per tre volte. La prima a sedici anni, dopodiché, nel 1964, all’istituto Paolo Pini di Milano, e, infine, nell’1986, a Taranto.

L’esperienza atroce del manicomio è narrata con estrema lucidità dalla nostra poetessa.

L’orrore si trasforma in pura bellezza, attraverso le opere letterarie che nascono da quei periodi nefasti.

La Merini, vittima di abusi durante l’internamento, di continui e ingiustificati elettroshock, legata mani e piedi al letto, ci offre uno spaccato del suo essere e della società di quel tempo, che, piuttosto che affrontare i problemi, preferiva rinchiuderli dietro quattro mura e torturare chi non aveva la capacità di difendersi da sé.

E dopo, quando amavamo ci facevano gli elettroshock perché, dicevano, un pazzo non può amare nessuno”.

Tornata alla vita, dopo numerosi amori, delusioni e orrori, Alda si rifugia nella sua iconica stanza dei Navigli a Milano.

Un rifugio per tutte quelle persone dimenticate dalla società, fatto di numeri di telefono e appunti scritti direttamente sulle pareti, cataste di libri e fotografie, bruciature di sigarette sul pavimento, come a formare un percorso di vita non proprio delineato, ma comunque eccezionale.

Le opere e la vita di Alda Merini, così turbolente e avvincenti, ci insegnano che, nonostante vi siano mille peripezie nella vita, siamo tutti in cerca della nostra Itaca.

D’altronde ognuno di noi vuole solo arrivare sano e salvo in quel luogo che chiamiamo “casa”.

Tuttavia, il sentirsi fuori dal proprio mondo è un sentimento che non appartiene solo ad una determinata epoca o ad un determinato contesto letterario.

Le donne d’oggi, seppur con le spalle rese più larghe dalle numerose battaglie ed esperienze delle loro sorelle d’annata, vivono ancora tra stereotipi e pregiudizi in diversi ambiti.

Il poeta è ancora visto come uomo, capace di dominare e irreggimentare in versi i propri sentimenti, e lo sportivo è ritratto come una roccia, emblema perfetto della mascolinità.

A proposito di quest’ultimo luogo comune, c’è quello che vuole che il calcio sia una cosa da e per maschi.

Tuttavia – e per fortuna – c’è chi sfata questi cliché ed il suo nome è Barbara Bonansea.

Negli ultimi anni, lei e altre bravissime calciatrici stanno portando alla luce il mondo del calcio femminile.

Una crescente attenzione a questo sport, che ha proiettato gli italiani verso il Mondiale di calcio femminile, che è stato trasmesso in tv nel 2019, è stata veicolata moltissimo dai media e ha raggiunto la sua acme con la partita Juventus Women-Fiorentina, che, sempre nel 2019, è stata disputata nello stadio “degli uomini”: l’Allianz Stadium di Torino.

Altra notizia positiva? Il calcio femminile diventerà professionistico dalla stagione 2022-2023.

In questo modo le donne non saranno costrette a cercare e a fare altri lavori, ma saranno equiparate ai colleghi uomini.

Barbara Bonansea nasce a Torino nel 1991. Da quello che sappiamo della sua vita, ha trascorso lì la sua infanzia, seguendo con attenzione gli allenamenti del fratello, finché un giorno non è scesa in campo anche lei.

Immagino che, nei primi anni 2000, una donna, che alla classica domanda “E tu? Cosa vuoi fare da grande?” risponde “la calciatrice” sia stata presa per una sciocca – per non dire che è stata presa per folle.

Ma il problema non sta soltanto qui.

Alle spalle di una calciatrice, c’è un percorso estremamente faticoso, puntellato di sfottò derivati dal fatto che il calcio, ancora oggi, è considerato uno sport a uso e consumo esclusivo degli uomini.

Quindi, voler fare la calciatrice in Italia non dev’essere stato affatto facile, anche perché – come ho già specificato – il calcio femminile verrà riconosciuto come una professione a tutti gli effetti solo tra un anno.

Ciò sta a significare che l’ambizione di diventare calciatrice di Bonansea poteva rimanere frustrata.

In un certo senso, nell’incertezza di vita tipica in una ragazza così giovane, dev’essersi innestata l’idea di mollare tutto e dedicarsi a un lavoro vero.

Per fortuna ci hanno pensato prima il Brescia e poi la Juventus a farle capire che il suo sogno non sarebbe rimasto chiuso in un cassetto.

Ma proprio dalla paura di essere nel posto sbagliato e di inseguire una chimera; da campi ridimensionati e dagli stereotipi che ogni giorno le donne devono affrontare anche nello sport, è nata la forza di Barbara, che ora è una calciatrice affermata.

Questo non vuol dire, però, che non ci sia ancora della strada da fare per ottenere che il calcio femminile venga equiparato a tutti gli effetti a quello maschile.

Sicuramente la strada intrapresa dalla società moderna sembra essere quella giusta.

Dopotutto, osservando a confronto la storia della Merini con quella della Bonansea, seppur abbiano lottato contro pregiudizi e abbiano superato ostacoli molto diversi tra loro, si intuisce che la forza d’animo, prima o poi, viene comunque ripagata.

Essere precursori è sempre complesso, ma dà immensa forza a quanti decidono di intraprendere quella stessa strada.

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