Roma, mercoledì 11 novembre.
Mi alzo presto, prendo l’autobus, vado a lavorare. Mascherina, guanti – non si sa mai –, gel disinfettante. Sembra quasi uno scenario normale. Del resto, le nostre vite sono radicalmente cambiate dallo scorso marzo. In una danza di DPCM, DL e bollettini della Protezione Civile, ci siamo adeguati, anche con diversi sforzi, ad accettare una situazione che, ogni giorno, si fa sempre più difficile.
La cosa nuova, che si aggiunge alla chiusura totale di palestre, teatri e musei, bar e ristoranti alle 18, coprifuoco dalle 22 alle 5, è la divisione in tre zone.
L’Italia è stata suddivisa, in base al rischio epidemiologico, in tre aree identificate dai colori giallo, arancione e rosso. Come un semaforo: il giallo ti ricorda che c’è un campanello d’allarme; l’arancione che è meglio se stai buono; il rosso che mi sa tanto che ti devi fermare. Il web è stato invaso da meme e post satirici sull’argomento che, a metà tra denuncia e ironia, sembrano voler sdrammatizzare una situazione estremamente critica.
Trovandomi nel Lazio, zona gialla, posso dirvi che mi reputo decisamente fortunata. Mi guardo intorno e mi accorgo che, dopotutto, qui le cose non sono cambiate poi tanto.
Posso ancora fare un pranzo fuori o un aperitivo antimeridiano; posso passeggiare liberamente tra le strade del centro e godermi qualche ora di sole al parco.
I ragazzi continuano ad andare a scuola, le persone a prendere i mezzi, i negozi a vendere maglioni e stivali. Sembra di stare in una bolla, quasi come se le cose volessero rimanere intatte, ferme, impantanate nella paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro. È come essere avvolti da un alone di timore e incertezza. Fare a meno delle cene fuori, di un’uscita in più, è un prezzo del tutto onesto che mi sento disposta a pagare per evitare che tutto collassi.
Mi trovo dalla “parte giusta”, baciata da una sorte più favorevole, ma dubito che sia per merito. Ritengo, piuttosto, si tratti di altro. E mentre cerco di tenermi stretta quel briciolo di libertà che mi è rimasta, la maggior parte dei miei affetti – i miei genitori, ad esempio – si trova in Calabria, temutissima e aspra zona rossa. Se non lavorassi qui nel Lazio, presumibilmente, mi starei godendo un secondo lockdown a suon di lievito madre, passeggiatine notturne col cane e file chilometriche al supermercato. Sui motivi che hanno reso la Calabria zona rossa stendo un velo – per non dire altro – pietoso, mi limito a provare dolore e frustrazione per una situazione che, nessuno, sa come prendere.
Forse qualcuno potrebbe pensare che nella famigerata zona gialla le cose siano effettivamente migliori che altrove, ma la verità è che non è così. Affatto. Le persone si assembrano lo stesso, spesso e volentieri non rispettano le distanze e si dimostrano noncuranti dei protocolli. Perché tanto così è. Cosa rende, allora, una regione come il Lazio diversa dalla Calabria? Certo, è una domanda retorica.
Siamo tutti in balìa di imposizioni spesso discutibili che tentano di arginare le azioni di un nemico che ha tentacoli lunghissimi e si è insinuato, lentamente e inesorabilmente, in tutti gli angoli della nostra quotidianità. Che sia gialla, arancione o rossa, poco importa: è tutto cambiato, e questo, indipendentemente dal colore che, solo momentaneamente, ci rappresenta.
La vita dei miei amici in Calabria ha subito, nel bene o nel male, la stessa battuta d’arresto di marzo, con l’aggravante che, adesso, in un modo o nell’atro, bisogna comunque convivere col virus e non avere la possibilità di fare quelle cose che concedono una pausa. È ritornata l’autocertificazione, i “comprovati motivi di salute e lavoro”, la chiusura di negozi che non vendono beni essenziali. È tutto fermo, di nuovo. Anzi, è rosso.
Io, certi piccoli lussi, ancora me li posso permettere. Parlare con loro mi fa spesso sentire in colpa per trovarmi in un posto in cui, tutto sommato, non è che siamo messi tanto meglio ma, chissà per quale trama politico-economica, non è al pari. Eppure io posso mettere il naso fuori, respirare, camminare e correre senza autocertificazione. Loro no. Io posso godermi un gelato, lo shopping, una gita fuori porta. Loro no. Sono al semaforo rosso. Aspettano: aspettano che diventi arancione, quantomeno.
Ma qui, bloccate al semaforo, troppe persone. Ci sono i commercianti d’abbigliamento, la cui unica colpa è quella di aver scelto di vendere abiti e non cibo; ci sono le gioiellerie, i centri estetici, rei di non aver scelto di occuparsi di panificazione e lieviti. Come dovrebbero stare queste persone? Perché ci sono, di nuovo, delle categorie che faticheranno ad arrivare a fine mese poiché prive di rispetto e tutela? Perché renderle rosse?
Il paradosso di questa situazione è che ci sono alcune persone che, nonostante il semaforo rosso, attraversano lo stesso la strada, magari a stento, ma arrivano alla fine seppur arrancando. Mentre gli altri, beh… Devono restare fermi ad aspettare. Ancora, e chissà per quanto tempo. O, peggio ancora, senza sapere se alla fine dei giochi saranno ancora in grado di reggersi in piedi e rialzare, finalmente, le saracinesche. Mi chiedo come ci si possa sentire, perché non posso immaginarlo. Perché la mia vita è gialla, in bilico, sospesa. Ma continua, in qualche modo. Anche se le mie radici sono rosse ed è stato loro vietato di crescere, questo mio piccolo cuore sopporta e cammina lungo gialle strade d’autunno.
Mi sento tanto arrabbiata, come se dipendesse da me. È strano trovarsi in un posto in cui la vita scorre ai soliti ritmi con la consapevolezza che, altrove, non sia così. È strano perché ti fa sentire un privilegiato, ma in realtà è solo un fat(t)o politico, nulla di più.
Il mio cuore batte, batte forte ed è rosso, non si ferma e vorrei che la mia terra, i miei amici, la mia famiglia facessero lo stesso.
E io?
La mia vita è gialla, si muove da una parte all’altra con la mascherina e l’ansia, ma procede. Il mio cuore è rosso, vibra, pulsa, e intanto attende, sperando che diventi verde.
Docente, laureata in Lettere Classiche e Filologia Moderna.
Ha conseguito un Master in Economia e Organizzazione dello Spettacolo dal Vivo, perché il suo sogno nel cassetto è di diventare la giovane manager degli artisti lirici italiani nel mondo.
Dalla spiccata sensibilità, fa dell’istruzione la sua missione quotidiana, plasmando giovani menti, e fa volontariato in ospedale grazie alla sua prepotente voglia di aiutare il prossimo.
Appassionata di musica (di ogni genere), lettura e scrittura, soprattutto creativa.