"La Rai che tenta di censurare Fedez è sintomo di un servizio pubblico che deve essere riformato e di un'Italia che non riesce a migliorare".

Probabilmente, per chi ha avuto modo di ascoltare il monologo di Fedez sul palco del concertone del 1° Maggio, saranno passate in secondo piano l’accusa fatta al Governo con riferimento al disinteresse e ai mancati aiuti al mondo dello spettacolo, e persino la denuncia pubblica delle disgustose parole sull’omosessualità, spese da alcuni esponenti della Lega.

E anche il Vaticano e il suo finanziamento alle aziende produttrici della pillola del giorno dopo avranno sì richiamato l’attenzione generale, ma saranno finite, come d’altronde tutto il resto, nel dimenticatoio.

Il monologo di Fedez sul palcoscenico del concertone del 1° Maggio in una Piazza San Giovanni deserta, Roma, 2021

L’autentico scandalo di tutta questa invettiva rabbiosa, faticata e pregna di delusione del rapper milanese sta nel fatto che, nel 2021, dopo quasi 80 anni di Repubblica, a 5 giorni dal festeggiamento della Liberazione dall’oppressione fascista, un artista debba ancora chiedere il permesso per dire qualcosa sul palco di uno degli eventi più popolari e identitari dell’intera nazione… per di più trasmesso sul canale della rete pubblica, storicamente, di sinistra.

Non è certo la prima volta che, nella sua storia, la Rai operi censure di questo genere per edulcorare e veicolare informazioni che, a suo avviso, devono essere proposte e propinate al telespettatore.

La storia della televisione pubblica è piena zeppa di episodi simili.

Abbiamo visto scene di film o serie tv venire chirurgicamente tagliate e ospiti di Sanremo che, per le loro dichiarazioni, sono stati biasimati dalla dirigenza Rai, che, però, non manca mai di presenziare in prima fila all’occasione.

Assistiamo quotidianamente ad una programmazione e alla continua riproposizione di contenuti anacronistici e costruiti sul bigottismo e sulla doppia morale tipicamente italiana.

Tutto questo è inaccettabile, perché non si tratta di Tele Capri o RealTime – reti private e “tendenzialmente” libere nella proposizione di contenuti di parte -, ma dell’unica emittente pubblica, finanziata pubblicamente da tutti, ma controllata e diretta ad uso e abuso di pochi.

Quel che succede, In Italia, nel 2021, è che abbiamo, da un lato, una rete privata come Mediaset, che consente vengano mandati in onda – sia pure all’interno di un discorso generale pienamente condivisibile, il che suona tanto di occasione persa – comici che, senza troppe remore, utilizzano termini come “neg**” o “ric****one” (obiettivamente e ampiamente offensivi); mentre dall’altro abbiamo una rete pubblica che si preoccupa di esaminare, filtrare e, infine, censurare – perché sì, si tratta di censura sibillinamente riproposta sotto l’anagramma metaforico di “inopportuno” o “fuori contesto”,- un artista che denuncia in tv fatti concretamente accaduti, la cui oscenità e la cui indecenza sono sotto gli occhi di tutti, a prescindere dalle posizioni individuali.

La chiamata pubblicata sui propri canali da Fedez con il collaboratore della Rai e la Vicedirettrice di Rai3, Ilaria Capitani

Se qualcuno avesse dei dubbi, chiariamo qualche punto circa il “perché la rete pubblica non può censurare”.

Ebbene, quando, nel corso del Protocollo annesso al Trattato di Amsterdam del 1997, si è discusso circa il mantenimento delle “Tv di Stato”, – problema che si poneva soprattutto a seguito del rapido avanzamento delle reti private nel mercato, che faceva dubitare della legittimità di certe situazioni di monopolio e del loro finanziamento pubblico –, la decisione raggiunta fu quella di mantenerle per una semplice ragione: rappresentano uno spazio democratico insopprimibile.

Se non si può costringere un privato a proporre dati contenuti, essendo tendenzialmente libero – seppur non privo di limiti – nel decidere cosa programmare (ciò spiega i nostri 25 anni di tv berlusconista), il servizio pubblico radiotelevisivo, al contrario, deve garantire il pluralismo, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze, la sicurezza e la trasparenza dell’informazione. In altre parole, deve essere garanzia democratica.

D’altronde, quanto appena scritto è plasticamente riportato persino nelle regole giuridiche e nei codici etici che stanno alla base del sistema della televisione pubblica, che la eleggerebbero a pieno diritto come lo spazio che meno fra tutti dovrebbe essere soggetto a censura.

Ma come fa ad essere pluralista e democratico uno spazio il cui amministratore delegato (che praticamente, a seguito delle ultime riforme, può agire come un deus ex machina), la cui dirigenza, il cui consiglio di amministrazione, e il cui principale azionista – ossia il Ministero dell’economia – sono tutti di derivazione di una sola parte politica (quella che occupa di volta in volta la maggioranza)?

Come facciamo a giudicare la tv di Stato pluralista, democratica e rispettosa delle differenze, quando, attraverso i suoi esponenti, giudica inopportuno denunciare coram populo chi augura agli altri di “morire nei forni”?

Perché il male e il marcio non devono venire a galla?

Forse hanno ragione Pio e Amedeo, quando dicono che siamo un paese di paraculi: in fondo, abbiamo bisogno di una doppia morale.

Anche nella tv di “sinistra” si deve rimarcare l’orrore della discriminazione; ribadire che, nel bel paese, il mondo dello spettacolo e dell’arte viene trattato come ciarpame e che il Vaticano finanzia la pillola del giorno dopo e l’industria delle armi e ricordare che è una tragedia che quasi 1 milione di persone abbia perso il lavoro l’ultimo anno… ma guai a fare nomi.

Guai ad intraprendere qualsiasi azione che porti qualcuno ad assumersi delle responsabilità e a noi di prendere coscienza.

Guai a denunciare, proporre, combattere, lottare, resistere…

Guai a provare a cambiare davvero le cose.

I cambiamenti si gridano e si millantano e basta, altrimenti va a finire che qualcuno li fa sul serio.

Che dire? Questa sì che è “una brutta storia”.

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