«Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura.» Così scriveva Enzo Biagi, nel 1983, in una lettera indirizzata all’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
È l’alba del 17 giugno del 1983, quando il noto conduttore televisivo della RAI Enzo Tortora viene arrestato nella sua abitazione per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Da quel giorno di giugno ha inizio per il conduttore una travagliata vicenda giudiziaria, trasformatasi poi in uno dei più clamorosi casi di malagiustizia. L’accusa era supportata principalmente da 19 testimonianze di pentiti: nello specifico, tra i più feroci accusatori del conduttore, appariva anche il pregiudicato Pasquale Barra, personalità legata all’allora fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo. Barra imputò a Tortora lo spaccio di droga nel mondo dello spettacolo.
L’unico elemento oggettivo dell’accusa era un’agendina, trovata nell’abitazione del camorrista Giuseppe Puca, con sopra scrittovi apparentemente il nome “Tortora” e un numero di telefono. In un secondo momento, l’esito di una perizia calligrafica confermò che il nome scritto fosse quello di un tale “Tortona”, mentre il recapito telefonico non risultò appartenere al presentatore.
Nonostante fossero false, le testimonianze furono il pilastro fondante della condanna per il conduttore a 10 anni di carcere, il 17 settembre del 1985. Solo un anno dopo, il 15 settembre del 1986, Tortora fu assolto dalla Corte d’appello di Napoli. Dopo sette mesi, tra carcere e arresti domiciliari, i giudici riuscirono a provare la sua innocenza, smontando le accuse rivoltegli dai camorristi. Questi, infatti, avevano testimoniato, dichiarando il falso, al solo scopo di ottenere una riduzione della loro pena.
Il timore ipotizzato da Biagi nella lettera al presidente Pertini è, oggi, una realtà concreta e spesso ignorata nella giustizia italiana.
È il caso di Anna Maria Manna, che venne coinvolta e accusata di pedofilia nell’indagine che sconvolse, nel 1999, la cittadina di Palagiano, in provincia di Taranto. Dei bambini di una scuola elementare infatti confessarono alle proprie maestre di aver partecipato a dei festini a sfondo sessuale con degli adulti. Per motivi mai chiariti però una foto di un vecchio documento di Manna era finita nei fascicoli dell’indagine. Ci sono voluti circa 15 giorni di carcere e 60 ai domiciliari, prima del completo proscioglimento delle accuse.
Un errore giudiziario, come quello che ha sconvolto la vita di Tortora e Anna Maria, è la sanzione, detentiva o pecuniaria, per una persona che non ha commesso il reato di cui è accusato.
Dal 1992 al 2020 sono stati registrati ben 29.452 casi, con una media quindi di 1.015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Per il risarcimento, calcolato in base ai giorni di mancata libertà, lo Stato ha speso, sempre dal 1992 al 2020, un totale di 794 milioni di euro, circa 27 milioni l’anno. In particolare, secondo quanto pubblicato dal Sole24Ore, l’80% degli indennizzi dal 2017 al 2019 è legato a un caso di ingiusta detenzione.
Il risarcimento, che corrisponde a una media di 40.000 euro a persona, a oggi spetta allo Stato, che può eventualmente richiedere poi, attraverso le azioni disciplinari, il recupero delle somme pagate ai responsabili dell’errore. Tuttavia l’indennizzo non tiene mai conto del danno di immagine e di quello morale, nonché delle conseguenze psicologiche di una pesante accusa e degli effetti di una ingiustificata privazione della libertà.
In merito a questi dati, il Sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, durante il podcast “Una cosa per volta” di Radio 24, ha dichiarato: «Inutile negarlo, c’è una tendenza restrittiva, perché gli oneri dell’equa riparazione per ingiusta detenzione non sono pesanti: sono pesantissimi».
C’è da chiedersi dunque, come scrisse Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene” del 1764, «Quale è quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà a un giudice di dare una pena a un cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?». Di fatto, la frase “innocente fino a prova contraria”, al momento, rimane solo un’illusione.
Nasce a Roma nel 1996.
Laureanda in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza, è stata definita “errata ma teoricamente giusta” da un docente e non potrebbe essere più d’accordo.
Sogna di diventare giornalista senza dover prima passare dal Grande Fratello – pur consapevole che il rischio sia alto – e punta a dirigere La Repubblica, ma non il paese.
Appassionata di stand-up comedy e politica, anche se spesso si confondono.