Raccontare la crisi dei partiti politici a margine dell’insediamento di un governo tecnico, è un compito che somiglia più ad un necrologio che non ad un tentativo – tutto sommato modesto, sia chiaro – di compiere una diagnosi sullo stato di salute della nostra democrazia in via di delineare uno spazio di possibili e auspicabili proposte risolutorie.
La storia della crisi della “partitocrazia”, d’altronde, è vecchia quasi quanto quella della Repubblica, affondando le sue radici, oltre che nelle disfunzioni di un sistema elettorale mai adeguato, nella sempre più evidente incapacità del sistema partitico di assolvere a quell’imprescindibile funzione di raccordo e sintesi di una società sempre più multiforme e pluralista e le istituzioni democratiche. Al tempo stesso, però, quanto sta succedendo negli ultimi anni segna un decorso diverso e sempre più preoccupante rispetto agli esiti di una crisi mai affrontata e sempre più in via di recrudescenza.
Infatti, se in passato il sistema partitico è sempre uscito “rafforzato” dalle ricorrenti crisi che ne minacciavano la sussistenza (il passaggio da quelle che, obtorto collo, definiamo Prima e Seconda Repubblica è icastico in tal senso), negli ultimi 20 anni, al crollo di sistema non è seguita la stessa capacità di reazione e ricomposizione registrata in passato. Ad oggi, i motivi e le ragioni di quel collasso si fanno sempre più dirompenti, esacerbate da una serie di fenomeni, dalla globalizzazione al decentramento all’interno del mercato della decisione politica, che hanno messo in ginocchio la tenuta democratica non solo dell’Italia, ma di tutti i paesi occidentali.
La domanda a questo punto è: quali sono gli aspetti che stanno determinando il tracollo del sistema dei partiti? Quali i fattori di crisi? Quali le possibili soluzioni?
Rispondere a queste domande ci è d’aiuto per interpretare e decodificare un presente rispetto al quale fenomeni come l’antipolitica e il populismo rappresentano non tanto i fattori principali della crisi, quanto sintomi di un più ampio vuoto di risposte rispetto ad un problema annoso, i cui effetti stanno dirompendo proprio ora che la goccia non si limita a far traboccare il vaso, distruggendolo in mille pezzi.
La crisi dei partiti è almeno di 4 generi: ideologica, funzionale, strutturale e comunicativa.
Sotto il primo aspetto, i partiti hanno cessato di esprimere visioni del mondo, della società e della gestione della cosa pubblica. Alla contrapposizione storica tra destre e sinistre, fa riscontro oggi un centrismo elitista e moderato che ha più la funzione di controrispondere all’antipolitica: populisti e antipopulisti, insomma. Ma, a nessuna delle fazioni in contrapposizione corrisponde una ideologia, ossia un programma di valori, interessi, obiettivi ai quali riconnettere una precisa scelta politica. Le ideologie vengono oggi viste con sospetto soprattutto dal corpo elettorale, che le interpreta al più come vuoti principi o tentativi di dissimulazione. Ciò che conferma una vittoria della concezione marxista dell’ideologia intesa come falsa coscienza: servente una rappresentazione falsata del mondo allo scopo di raggiungere finalità secondarie perlopiù miranti alla conservazione del potere. Tuttavia, è impossibile negare che alla base di certe conquiste (un esempio su tutti, lo Statuto dei Lavoratori) vi siano precise opzioni ideologiche. Fenomeni come l’antipolitica, pertanto, sono la risposta ad un senso di sfiducia verso la capacità dei partiti politici di farsi portatori ed esecutori pratici di quelle visioni del mondo. Spesso – non a caso – alla desertificazione ideologica della politica fa seguito la nascita di quei movimenti “nostalgici”, di cui non sente la mancanza nessuno, ma la cui presenza vorrà pur dire qualcosa!
Da un punto di vista funzionale, invece, i partiti hanno perso il contatto con la società civile e con il supremo compito a cui sono chiamati dall’art. 49 della Costituzione italiana. Oltre a muoversi senza alcuna visione programmatica e ideale della società, i partiti scientemente rinunciano a quel ruolo di sintetizzatori della realtà volta a consolidare un collegamento tra cittadino e istituzione; compito che non solo ne legittima, ma anzitutto ne giustifica l’esistenza in un sistema democratico. I partiti politici tendono così a svuotarsi di programmi ideologici, seguendo la logica del consenso, appiattendosi infine sulla gestione della cosa pubblica in modo da perpetuare costantemente la loro presenza al governo della stessa. Ciò ha permesso l’instaurazione del clima di campagna elettorale permanente, funzionale non a quel compito di sintesi e raccordo, bensì a quello della mera sopravvivenza al potere. In altre parole, si è passati dall’essere organizzatori del consenso politico ad organizzati intorno al consenso popolare.
Inoltre, in società tendenzialmente più eterogenee, divise, multilivello e complesse come quelle contemporanee, i partiti politici difficilmente riescono a compiere un’operazione di composizione e traduzione della molteplicità delle parti e dei loro interessi. Ciò, però, è dovuto soprattutto a fenomeni che sfuggono alla politica in quanto tale, ricadendo perlopiù nella sociologia e nell’ambito delle evoluzioni tecnologiche e della comunicazione che su di essa si sono riverberate. Fenomeni, tuttavia, rispetto ai quali la “partitocrazia” non si è per nulla attrezzata ai fini di una risoluzione, appiattendosi sempre più su un uso strumentale degli stessi ai fini della mera conservazione del potere.
Oltre a ciò, dal punto di vista funzionale, incidono in maniera pervasiva i mutamenti indotti nel rapporto tra politica ed economia dalle dinamiche dei mercati e dalle strutture di governance internazionale dell’economia. Quest’ultima, infatti, non è più terreno della decisione politica, essendo sempre più l’economia e le esigenze intestine dei mercati a determinare il contenuto dell’azione politica. Ciò determina un effetto di “sbandamento” dei partiti politici, che nel loro agire sono sempre più condizionati alla ricerca di un compromesso piuttosto con i soggetti economici privati transnazionali, che non con i cittadini o il loro elettorato. Detto altrimenti con le parole del professor Galli: «il capitalismo – che sempre più a fatica si valorizza –esige mano libera rispetto alla politica e al diritto, e rifiuta come costi insopportabili le conquiste dello Stato sociale: l’offerta deve prevalere sulla domanda, la competizione sulle politiche di occupazione e di reddito, e il lavoro deve essere flessibile, precario, subalterno, disarticolato, diviso, isolato, privo di diritti davanti all’unica esigenza legittima, cioè lo sviluppo e il profitto del capitale […]».
Quanto detto finora si riflette a propria volta sull’aspetto della comunicazione dei partiti. Il 1994 ha certamente segnato il passaggio al leaderismo democratico. E il leader politico si è spostato dalla piazza e dalle aule del partito alla televisione, per approdare infine sulle piattaforme social. Il leaderismo e la telematizzazione della politica hanno imposto un cambio del paradigma linguistico. Detto in parole spicciole, i politici odierni avrebbero molto più da imparare da Mastrota che non da Berlinguer. Infatti, l’efficacia della comunicazione politica dipende dalla capacità di acquistare il consenso; e a ciò depone molto meglio la tecnica pubblicitaria, che seduce e persuade, che non quella dell’uomo dei principi e dei programmi. La politica odierna ha attinto dal mondo pubblicitario la forza persuasiva dello slogan, apparentemente più neutrale e quindi maggiormente efficace nella raccolta di un consenso ampio e trasversale, rinunciando perciò a comunicare in modo trasparente la complessità del reale. I leader compaiono in tv e tweettano a ritmo di slogan come conduttori televisivi, trasformando la politica in video politica e l’elettore in uno bambino-tifoso che, pungolato dalla persuasione pubblicitaria, vota, non per appartenenza, ma – parafrasando il prof. Sartori – sulla base suggestioni mediatiche superficiali, riducendo per questa via la qualità del dibattito democratico.
Rimane, infine, la questione dell’aspetto strutturale. Da questo punto di vista, i partiti politici sono dominati da quegli apparati oligarchici che, assumendo all’interno una posizione apicale, impediscono la piena partecipazione dei pochi iscritti e aumentano, all’esterno, il baratro tra istituzioni e cittadino. La distanza tra i gruppi direttivi e la base di massa riproduce all’interno dei partiti quanto accade a livello sociale, aumentando la sfiducia nella politica e, di converso, l’adesione all’antipolitica. La vita dei partiti è scandita dalle decisioni del leader e del suo gruppo direttivo con una metodologia dall’alto che pone le strutture e le procedure degli stessi al di fuori della dinamica democratica. Anzi, dal momento che sono quei gruppi a designare i candidati alle elezioni politiche e amministrative, si è introdotto un meccanismo di selezione dall’alto assolutamente distante dalle più basilari dinamiche democratiche. Se questo consente l’autoconservazione degli apparati oligarchici in seno ai partiti, mina oltre misura la capacità degli stessi di aver presa sugli interessi dei cittadini in vista di rappresentarne le esigenze.
Il sistema di finanziamento ai partiti poi, che nel nostro paese è stato protagonista di una storia travagliata e sofferta, tra abolizioni e reintroduzioni surrettizie, alimenta l’idea che siano lobbismi e gruppi di interessi a tirarne le redini, determinando le sorti del sistema. Se è vero che qualcuno ha affermato che Tangentopoli non è mai finita, qui si può solo affermare che senza trasparenza non vi può essere democrazia.
Quali soluzioni?
Le strade sono diverse ed è difficile poterne garantire l’efficacia una volta attuate. Una cosa però è certa: senza ristabilire quel cordone ombelicale tra cittadini e partiti non sarà possibile predicare alcuna istanza di recupero di un sistema che, ahinoi, non conosce, presumibilmente, alternative più valide. Spesso nel nostro paese è stata evocata la necessità di un recupero di democrazia diretta. Queste speranze, però, sono state perlopiù dettate dalle inefficienze della democrazia rappresentativa che dalla possibilità concreta di un inapplicabile ritorno alla democrazia diretta di stampo ateniese. Ma forse ciò che si è confuso è solo il destinatario di quella richiesta di maggiore democraticità. La necessità di un recupero del sistema partitocratico in vista di ovviare alla cesura tra politica e cittadino, non può non passare da un ripristino della democraticità interna ai partiti. La ristrutturazione della rappresentanza partitica richiede proprio la soddisfazione di quella domanda di democrazia partecipativa a cui si è fatto cenno poc’anzi: predisposizione di sistemi di consultazione di base, meccanismi di tipo deliberativo-argomentativo, limiti di mandato rispetto ad incarichi rappresentativi a tutti livelli, divieto di cumulo delle cariche, selezione delle candidature attraverso regole democratiche che coinvolgano tutta la base, e naturalmente obblighi di trasparenza più stringenti.
Ciò è utopistico solo a patto di affidare la missione di redenzione agli stessi partiti e ai loro gruppi dirigenti. Sul presupposto che “se cambia la domanda, cambia anche l’offerta” è plausibile immaginare che ove l’opinione pubblica spinga su questo tema – così com’è avvenuto per il taglio dei parlamentari o altre norme simili – i Parlamenti finiscano per cedere alla necessità di una regolamentazione statale che imponga i requisiti di democraticità interna ai partiti stessi.
Certo, la strada per salvare la democrazia è lunga e impervia. Ma senza compiere un primo passo, insieme, non potremo mai sperare di percorrerla veramente.
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!