Premessa: non è intenzione di chi scrive dare una risposta alla domanda titolata, piuttosto sollevare domande e dubbi sulla nostra possibile presa di coscienza rispetto al fenomeno che si intende analizzare.
Andiamo per ordine.
Vendere prestazioni sessuali in Italia è legale?
Ci troviamo, come sempre, nel solito paradosso all’italiana: non c’è nessuna legge che definisce espressamente come lecita la compravendita di rapporti sessuali. La verità è che in Italia prostituirsi non è illegale qualora lo si faccia in casa propria e non all’interno di una struttura all’uopo organizzata.
Infatti, la prostituzione in Italia non è reato: ciò significa che chiunque scelga di prestare servizi sessuali in cambio di denaro e chi intenda pagare per usufruire di tali prestazioni, in luoghi privati, non può essere perseguito né punito penalmente.
Ciò che in Italia, invece, configura espressamente ipotesi criminosa è la condotta descritta dall’art. 3 della Legge Merlin – la L. N. 75/19858 – che, entrando in vigore il 20 febbraio 1958, ha modificato gli artt. 531-536 del c.p., punendo dichiaratamente le condotte che circoscrivono il fenomeno del meretricio.
In particolare, l’articolo citato prevede la condanna di chi abbia la proprietà o l’esercizio di una casa di prostituzione, o comunque la controlli, diriga, amministri, o la conceda in locazione per lo stesso scopo; nonché l’accertamento della responsabilità penale di chi recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione, o ne agevoli a tal fine la prostituzione; di chi induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio o anche di chi induca una persona a recarsi nel territorio di un altro Stato o comunque luogo diverso da quello della sua abituale residenza, al fine di esercitarvi la prostituzione ovvero si intrometta per agevolarne la partenza: in sostanza, la legge punisce chiunque, in qualsiasi modo, favorisca o sfrutti la prostituzione altrui.
L’ “agevolatore” è, quindi, la persona che trae profitto dalla prostituzione di altri, colui che si arricchisce attraverso i servizi sessuali offerti da altre persone: il reato si lega a qualsiasi condotta di tipo consapevole dalla quale si ottiene un utile grazie alla prostituzione altrui.
La prostituzione di per sé diviene, invece, illegale nel momento in cui il rapporto sessuale venga consumato in un luogo pubblico o aperto al pubblico: da ciò scatta l’illecito di atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), punito con una sanzione amministrativa che va da un minimo di € 5.000,00 a un massimo di € 10.000,00.
Inoltre, viene – ovviamente – sanzionato il fenomeno della prostituzione minorile, ovvero la vendita del corpo da parte di chi non abbia compiuto i diciotto anni d’età: l’articolo 600-bis c.p., titolato proprio “prostituzione minorile”, prevede, infatti, pene estremamente elevate per chi compie atti sessuali con un minorenne in cambio di danaro.
Ma facciamo un passo indietro.
La legge Merlin è intervenuta in un periodo storico in cui, fondamentalmente, la prostituzione era divenuta un mezzo di accrescimento economico delle organizzazioni criminali e, in tutto ciò, la stessa trovava l’avallo dello Stato che ne incassava regolarmente una tassa di esercizio: il tutto a discapito dei diritti fondamentali delle donne, oggettivate e usate deliberatamente per scopi abietti.
La legge, quindi, decretava finalmente la chiusura delle cosiddette «case di tolleranza», dove vivevano da recluse migliaia di donne, private dei diritti civili e politici.
L’impianto fondativo della norma, dunque, ha oggi travalicato quella che era una mera esigenza del tempo – impedire che terzi si avvantaggiassero dell’attività prostitutiva altrui – e costituisce oggi uno strumento indispensabile per risalire alle organizzazioni criminali, divenute sempre più pervasive, che utilizzano lo sfruttamento della prostituzione per ricavarne ingenti profitti.
Purtuttavia, non si può non rilevare come oggi il fenomeno della prostituzione, lungi dall’essere scemato, sia profondamente mutato rispetto agli anni in cui la legge n. 75 del 1958 fu promulgata, facendosi anzi più brutale e violento nelle sue conseguenze sulle persone prostituite, ma anche sull’intera collettività, ponendo seri rischi alla sicurezza.
In sostanza, quindi, lo Stato è intervenuto a metà aderendo a un modello passato alla storia come “Abolizionista”.
La legge, quindi, non punisce direttamente l’attività di meretricio, non riconoscendola quindi come condotta riprovevole; tuttavia, non prende posizione decidendo di non disciplinare le necessarie e opportune tutele a favore dei soggetti che vi prendono parte: tant’è vero che l’art. 7 della L. Merlin vieta la registrazione delle donne che esercitano o siano sospettate di esercitare la prostituzione.
Si parte dall’assunto che ogni individuo è libero di utilizzare il proprio corpo come meglio crede, quindi, può anche esercitare la propria libertà individuale e decidere di farsi pagare concedendo consapevolmente il proprio corpo; l’importante è non divenire contrari all’ordine pubblico e al buon costume.
Per dare una valutazione del fenomeno da più ambiti prospettici, si evidenzia che dal punto di vista del diritto civile, il contratto stipulato con una prostituta non può intendersi valido, è anzi nullo. Ciò significa che una prostituta che non ottiene il compenso dovuto non potrà reclamare legittimamente il pagamento: di recente, però, la Cassazione è intervenuta sulla questione considerando il mancato pagamento della prestazione sessuale equiparabile al reato di violenza sessuale, nonostante l’accordo intercorso fra le parti.
Dal punto di vista fiscale, invece, oltre al danno anche la beffa: il vero illecito commesso dalle prostitute, infatti, è che le stesse non emettono fatture o altre ricevute fiscali. Dal canto loro, trattasi di libere professioniste: la Cassazione ha chiarito che i proventi ricevuti sarebbero tassabili e andrebbero indicati in dichiarazione alla voce “redditi diversi” o “redditi di lavoro autonomo”per modo che, in caso di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, scattano le sanzioni tributarie e, con l’evasione oltre € 50.000,00, scatta anche la sanzione penale per il reato di omessa dichiarazione dei redditi.
Tra l’altro, la legge stabilisce che sono tenuti all’iscrizione presso la Gestione Separata INPS coloro i quali esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo derivante dall’esercizio di arti e professioni: dunque, poiché la prostituta possiede redditi di lavoro autonomo dovrebbe anche assolvere gli obblighi contributivi.
È evidente, dunque, che i c.d. sex- workers, come oggi vengono chiamati, sono privi di qualsivoglia tutela sotto ogni aspetto del diritto comune.
Tale termine è stato coniato negli anni ‘70 grazie agli attivisti che hanno imposto la sostituzione del vecchio prostitute, inteso come stigmatizzante. Come recita l’Encyclopedia of Prostitution and Sex Work, “Sex work è stato concepito come un termine non stigmatizzante, privo della caratterizzazione negative dei termini puttana o prostituta. Il punto era veicolare l’idea di una professionalità del lavoro sessuale, contro la svalorizzazione compiuta da gran parte della società”.
Il termine compare quindi oggi in tutti i documenti che affermano i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso, come il Sex Workers in Europe Manifesto e la Dichiarazione dei diritti delle/i sex workers in Europa, firmata a Bruxelles nel 2005 da rappresentanti di organizzazioni di 30 paesi, sottoscritto appunto per reclamare maggiori diritti e tutele in tutto il mondo.
I sexworkers, senza distinzione di genere, oggi sono privi di trattamento pensionistico e previdenziale, non hanno diritto alla retribuzione ex art 36 della Costituzione, non godono di tutele specifiche contro i rischi connessi sul lavoro, dalle condizioni igienico sanitarie alla sicurezza sul posto di lavoro; non hanno riconosciuto il diritto all’assistenza sanitaria (mentre nei paesi in in cui la prostituzione è regolamentata sono previste agevolazioni sanitarie rispetto agli screening relativi ai controlli HIV, HPV ecc; per esempio, nel 2016 la Germania ha introdotto una legge più severa, che richiede il rispetto di elevati standard igienici ai bordelli, proibisce le orge e rende obbligatorio l’uso dei preservativi); non sono previste forme di protezioni specifiche nei confronti degli abusi; non è tutelato il loro diritto di immagine o alla privacy in termini di non divulgazione del materiale che le raffigura.
La denigrazione del sex-working è una palese contraddizione, dal momento che l’industria del sesso è uno dei settori attorno a cui ruota il nostro sistema economico che si lega alla denigrazione delle donne e delle classi sociali più povere, marginalizzate e private di diritti e privilegi.
La sessualità e il sesso diventano dunque strumenti ideologici, di potere e di consenso, ai danni di sex-working vittimizzati, giudicati e considerati incapaci di decidere di sé, di apprezzare il proprio lavoro e spesso persino di averne coscienza—casistica che sussiste nei contesti di prostituzione coatta.
La legge vigente in Italia è dunque ancorata a un modello anacronistico: oggi, infatti, nell’industria del sesso fanno parte tutti coloro i quali forniscano servizi sessuali in senso lato con finalità commerciali e con i mezzi più disparati dovuto all’avvento inesorabile della tencologia nelle nostre viste: si pensi a chi lavora, su app come onlyfans, alle escort, ai lovegivers, agli assistenti sessuali, nonché agli strippers e lap dancers: tutte ipotesi non contemplate neanche per difetto dalla Legge Merlin.
Conformemente al disposto dell’art. 5 c.c. il diritto all’integrità fisica viene inteso come il diritto al godimento del proprio organismo nella sua interezza ed è un diritto assoluto, irrinunciabile e indisponibile: i sex-workers rivendicano oggi “il diritto, in quanto esseri umani, di usare i nostri corpi in qualunque modo noi riteniamo e il diritto di instaurare relazioni sessuali consensuali indipendentemente dal genere o dall’etnia dei/delle nostri/e compagni/e, siano essi paganti o meno.”
È evidente, dunque, il bisogno di intervenire in termini legislativi: ci ha provato a febbraio del 2022 la senatrice Alessandra Mariorino del M5S con la proposta di legge N. 2537, di cui non è ancora iniziato l’esame.
La proposta Maiorino prevede, in sostanza, l’abbandono del modello abolizionista in favore di quello c.d. nordico.
Per gestire il fenomeno del mercato del sesso e arginare la tratta e lo sfruttamento di esseri umani a esso connessi, sono fondamentalmente quattro i modelli individuati al livello europeo: il modello proibizionista, il modello regolamentarista, il modello abolizionista e quello nordico introdotto verso la fine degli anni 90.
Quello fino a ora adottato nel nostro paese è il modello «abolizionista» che mostra essenzialmente un approccio neutrale verso l’attività prostitutiva in sé e non punisce chi la pratica, ma tende a punire tutte le attività di contorno alla prostituzione. Attualmente è vigente anche in Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Polonia, Porto gallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania e Spagna.
Nel modello «proibizionista», poi, la prostituzione è vietata e perseguita penalmente: viene punito sia chi offre prestazioni sessuali a pagamento, sia chi ne usufruisce, sia chi pone in essere tutte quelle e attività di contorno alla prostituzione. Questo modello, seguito dalla gran parte dei Paesi dell’Est europeo, vede il fenomeno di libertinaggio come un disvalore sociale da estirpare.
Il modello «regolamentarista», al contrario, considera la prostituzione come una qualsiasi attività commerciale lecita e liberamente esercitabile: ciò impone, sostanzialmente, anche la presenza di tasse e restrizioni, nonché l’individuazione di luoghi preposti all’esercizio di tale attività, con l’obbligo di segnalare attività e residenza, nonché la prescrizione, ricadente solo sulle donne prostituite, di controlli sanitari obbligatori. Tale modello è adottato in sette Paesi europei tra cui i Paesi Bassi, la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Grecia, l’Ungheria e la Lettonia.
Invece, il «modello nordico» a cui si ispira la proposta di legge Maiorino è stato introdotto per la prima volta in Svezia nel 1999, dopo un lungo dibattito che ha coinvolto anche l’opinione pubblica. Tale modello è basato sul perseguimento, oltre che di tutte le condotte parallele, anche della domanda di sesso a pagamento, identificata come vero fattore trainante della tratta e dell’entrata in prostituzione di soggetti a vario titolo più fragili: in sostanza è prevista una pena nei confronti di chi accedere come fruitore al sesso a pagamento.
Se è vero che in base al monitoraggio effettuato sull’impatto di tale modello, l’azione deterrente esercitata sulla tratta e sul fenomeno della prostituzione in sé è stata ritenuta efficace – si pensi che il numero di persone in prostituzione in Svezia è diminuito del 65% e in Norvegia di un ulteriore 60% – è anche vero che tale modello è applicato in condizioni totalmente differenti rispetto a quelle che si verificano nel nostro territorio.
Infatti, il termine svedese Kvinnofrid si traduce in italiano “Legge pace delle donne”: ebbene, il modello nordico fu fondamentalmente richiesto da movimenti di donne svedesi che subivano abusi sessuali perché usate come prostitute: esso, quindi, criminalizza il cliente prevedendo sanzioni penali a carico del fruitore non criminalizzando l’atto della prostituzione poiché la donna è vista sempre come vittima.
In Italia, e in altre parti di Europa, non è così.
In primo luogo, giova considerare qual è qui la domanda di prostituzione: donne straniere vittima di tratta o di minori.
In secondo luogo, è opportuno tenere a mente la nuova interpretazione di sex-working e l’ampliamento dei soggetti che ne prendono parte che, al contrario, non vogliono l’abolizione del fenomeno, ma ne chiedono al contrario una vera e propria regolamentazione.
Proprio su tale premessa, in una pronuncia di qualche tempo fa, la Corte territoriale pugliese assumeva che la scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo costituirebbe una forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita ex art. 2 della Costituzione quale diritto inviolabile della persona umana.
La Corte costituzionale, poi, nella sentenza n. 141 del 2019, ha poi dichiarato infondate le questioni di incostituzionalità relative alle previsioni della legge Merlin, escludendo con ciò che la prostituzione «libera» sia riconducibile a una sfera di autodeterminazione sessuale e di esplicazione della personalità mediante la sessualità, tutelata costituzionalmente. I diritti di libertà – tra i quali indubbiamente rientra anche la libertà sessuale – sono riconosciuti dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona e di una persona inserita in relazioni sociali. La prostituzione, però, non rappresenta – a loro dire – affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica.
“In questo caso, infatti, la sessualità non è che una “prestazione di servizio” per con seguire un profitto e nulla ha a che fare con la libera sessualità in quanto tale. Né risultava invocabile, secondo il giudice delle leggi, la tutela della libera iniziativa economica da parte dell’art. 41 della Costituzione, poiché quella medesima disposizione costituzionale pone a essa il limite della dignità umana, un concetto da intendere in senso oggettivo: non si tratta della «dignità soggettiva», quale la concepisce il singolo, bensì di quella «oggettiva» in relazione alla società.“
Dunque, alla luce di tanto, è indubbio che la proposta Maiorino potrà avere gli stessi margini di efficacia in Italia come nei paesi scandinavi.
Forse sarebbe più opportuno procedere alla definizione di un modello neo-regolamentarista nell’ottica del fenomeno che si vuole andare a debellare, tenendo conto del tessuto sociale di riferimento.
Dobbiamo, di fronte a una modifica legislativa che si rende necessaria, interrogarci come popolo, e scegliere come porci dinanzi al fenomeno specifico del sex-working (che include oggi la prostituzione e in particolar modo quella di donne straniere e bambine, come anzidetto fetta di mercato più ambita), valutando e (se è il caso) superando tutti i tabù etici morali che hanno finora ancorato lo Stato al modello abolizionista.
Dopo di che dobbiamo porci ulteriori domande: la commercializzazione del corpo è un disvalore oppure no? Siamo sicuri che ogni attività umana sia commercializzabile? La società che vogliamo è quella in cui il commercio – in senso lato – e la mera volontà del singolo possono giustificare e legittimare l’espressione della nostra libertà?
Le implicazioni reali delle risposte a domande così delicate, in realtà, sono ancora sconosciute.
Se il sex-working verrà riconosciuto come disvalore, allora è giusto procedere all’adozione di un sistema neo-abolizionista o nordico; in caso contrario, sarebbe finalmente opportuno procedere alla regolamentazione e al riconoscimento di diritti e maggiori tutele per tutti, senza stigma di qualsivoglia natura.
Classe 1994, nasce e cresce a Cosenza, ma casa sua è il mondo intero.
Avvocato, donna in carriera e aspirante madre di famiglia, è laureata in Giurisprudenza alla LUISS Guido Carli e specializzata in Diritto di Famiglia e Minorile e in Diritto del Lavoro e Welfare, con esperienze di studio presso la Stockholm University in Svezia e la Universidade da Coruna in Spagna.
Ha viaggiato in numerosi angoli della Terra con lo zaino in spalla e la voglia di raccontarli.
Appassionata di letteratura, cucina, esplorazioni e ambiente!