“Ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata”. E’ con questa frase in esergo che Maria Grazia Calandrone decide di aprire il suo secondo romanzo dedicato idealmente alla figura della madre, edito da Einaudi. Se, infatti, con “Splendi come vita”, semifinalista al Premio Strega 2021, la poetessa aveva omaggiato Consolazione, sua madre adottiva, in “Dove non mi hai portata”, sembra portare a compimento il suo processo di ricognizione interiore, incontrando –metaforicamente- la sua mamma biologica, Lucia.
Maria Grazia e Lucia non si sono mai conosciute. L’autrice è stata abbandonata (il verbo non rende giustizia alla portata del gesto) da Lucia e Giuseppe in un punto di Villa Borghese all’età di otto mesi, quando un neonato “è ancora figlio di tutti”. Subito dopo, l’abbandono nell’abbandono: i due colpevoli per la società di allora (e, alla luce dei recenti fatti di cronaca, forse anche per la nostra) si macchiano dell’ennesimo, presunto, peccato capitale: il suicidio. Per l’esattezza, il tutto avviene il 24 Giugno 1965, nelle acque del Tevere, che in quegli anni accoglieva giovani corpi stanchi; troppo stanchi per essere ancora così giovani.
“Ogni abbandono ha una sua logica” – scrive Calandrone – e nella ricerca di questa logica intrinseca, inspiegabile, sta tutto il senso di questo romanzo e dell’ “indagine sentimentale che non lascia scampo a nessuno, neppure a chi legge” come troviamo riportato sulla stessa copertina.
E chi legge, ossia la sottoscritta, si è avvicinata all’esistenza di questo scritto per i due temi sopracitati: la figura della madre e il suicidio. Una vita data e una vita che si è arresa. Paradosso dell’esistenza se incarnate dalla stessa persona.
Emotivamente preparata, mi addentro in questo viaggio a ritroso, ricompongo i puzzle dell’esistenza di Lucia, creatura inarginabile; ma anche di Tonino, il suo primo amore e guida dei sentimenti futuri; Luigi, carnefice senza ragione; Giuseppe, compagno di fughe dall’immeritata infelicità, fino all’ultimo istante della vita. Come se le parole fossero mattoni, Maria Grazia Calandrone (ri)costruisce l’impalcatura di una vita, dei perché di una vita (i suoi e quelli di sua madre) con la cura e l’attenzione della poetessa, che sempre traspare nelle righe. A fare da sfondo, un’Italia lontana eppure per certi versi ancora drammaticamente vicina, segnata dal pregiudizio, dalla dittatura della normalità,“dalla fiatella sociale che imputridisce tutto quello che tocca”.
Perfino i luoghi rimandano ad una sensazione di continuità storica. Milano è, già negli anni 60, “l’impero delle cose”. Le persone sono sopraffatte dalle cose. Salvo poi scoprire – e che amarezza, questa scoperta!- che “Non è quello che avevamo sognato…”. Questo sospiro attraversa la storia, pronunciato in tutte le lingue e i dialetti del mondo con lo stesso dolore, la stessa rabbia, la stessa rassegnazione, come fossimo tutti la stessa persona”.
Insieme all’autrice arrivo alla fine di questa ricomposizione. Giunti all’ultima pagina la sensazione è spiazzante: Maria Grazia sembra aver trovato pace – mentre il lettore, molto probabilmente, l’ha persa. Il distacco emotivo si sgretola pagina per pagina, fino quasi a sentire il dolore di chi scrive, con chi scrive. Le pagine 231-232, alla voce intitolata “Alla compassione di tutti”, sono così intense e tragicamente sincere che varrebbe la pena riportarle per intero: “un disarmo totale”.
Mi avvalgo di una breve parentesi di spiegazione semantica per avviarmi alla conclusione di questa ricostruzione che non renderà giustizia alla bellezza delle parole lette.
Nella lingua tedesca la parola grazie si traduce “danke”, la parola pensiero “gedanke”. La radice in comune non è casuale per chi crede nella ricchezza della lingua: si intende ringraziare attraverso il pensiero, un pensiero che a sua volta si fa memoria, che straordinariamente si traduce con “gedenken”. Maria Grazia Calandrone tiene insieme esattamente questi tre concetti (gratitudine, pensiero e memoria) e restituisce dignità al gesto d’amore di Lucia e Giuseppe, alle loro intere vite che in poco meno di 300 pagine ritrovano il necessario significato attraverso una penna.
“Dove non mi hai portata” è un libro in cui la profondità non spaventa, un libro in cui parlando di abbandono e di morte si erge uno splendido inno alla vita. E alla scrittura.
Scrivere è l’arte di far durare le cose. Anche quelle che non sono mai state. Soprattutto quelle che non sono mai state.

Scorpione nell’anima, classe 1996, nasce a Cosenza e atterra a Torino.
Specializzata in Scienze del Governo, curiosa del genere umano e di tutto ciò che è cultura, studiosa dei fenomeni di mutamento politico ed economico-sociale in una prospettiva multidisciplinare, aborra l’autoreferenzialità del sapere, il qualunquismo, e le questioni che non vengono analizzate a dovere.
Pallavolista a livello agonistico, aspira a diventare docente universitaria e giornalista.
Appassionata di filosofia politica, dibattito, sport, viaggi e mondo viticolo… per diventare presto sommelier!