Niente fa più eco di una cassetta della posta vuota
(Charlie Brown, in Charles M. Shulz, Peanuts, 1950/2000)
10 Settembre 1947
Mia carissima Lee,
dopo tanti anni sono tornata finalmente in Italia, la mia amata patria. Un Paese che, a un certo punto, mi ha negato quella libertà di cui mi sono sempre fatta vanto e che ho cercato di mostrare ai miei bambini attraverso il mio metodo di insegnamento. Sono andata controcorrente, ribellandomi a qualsiasi sciocca imposizione. Pensa che a dodici anni dissi a mio padre di voler diventare ingegnere: ti lascio immaginare la sua reazione all’idea di iscrivermi alla scuola tecnica, frequentata solo da maschi. Alla fine però lo convinsi. Già da allora cominciarono i miei primi scontri con i compagni di scuola: le loro battute, le risatine, gli sguardi puntati addosso; quelle stesse scene le avrei rivissute alla facoltà di medicina. Ero l’unica donna del mio corso e sono stata tra le prime italiane ad ottenere quella laurea, da sempre riservata solo agli uomini. La vita universitaria è stata difficile agli inizi: ti confesso che avevo paura di non farcela, ma il desiderio di curare i malati e gli emarginati era più forte di tutto. Soprattutto non volevo darla vinta ai miei colleghi, feroci maschilisti! Sono una femminista convinta che ha combattuto le proprie lotte e le ha vinte.
Solo una volta non riuscii ad impormi e a tenere testa a un uomo; me ne pento ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni. Quando nacque Mario, mio figlio, io non ero sposata e Giuseppe, l’unico uomo che io abbia mai amato, era già promesso ad un’altra donna. La sua famiglia mi impedì di tenere il bambino e anche mia madre fu d’accordo con loro: era consapevole che un figlio, avuto al di fuori del matrimonio, mi avrebbe troncato la carriera. Mi lasciai convincere e, con grande dolore, lo affidai ad una balia. Andavo a trovarlo quando potevo ma quegli incontri non mi bastavano mai. Provavo invidia per quella donna che lo allattava, lo cullava per farlo addormentare, e veniva chiamata “mamma”, da mio figlio. Proprio io che ero definita “la mamma di tutti i bambini, la migliore delle madri” non ero stata in grado di allevare il mio. In quell’occasione la libertà di scegliere mi fu negata. Anni dopo la negai persino a Mario: dopo avergli confessato la verità quando era adolescente, gli impedii di chiamarmi “mamma” in pubblico per evitare scandali. Ho sfidato il mondo per i figli degli altri, ma non ho combattuto per il mio.
Di questi tempi si pensa che un figlio possa essere un ostacolo per una donna che vuole fare carriera; non è così. Ricordati che anche quando sarai madre rimarrai sempre una donna libera, come lo sei adesso.
Un forte abbraccio.
Maria
29 settembre 1947
Mia cara Maria,
la tua lettera mi è di grande conforto. Non so più quante vite ho vissuto da quella gelida notte di dicembre in cui fui abusata.
Ai tempi, posavo già per mio padre. Lui, il mio eroe. Colui che mi mostrava le magie della camera oscura. Già allora avrei dovuto comprendere che quella era la mia strada. L’unica percorribile. Fu proprio papà a cercare di alleviare le mie sofferenze per quel male subito lasciandomi libera di inseguire l’esistenza che preferivo. Che opportunità rara ebbi. La stessa che tu inseguisti con coraggio: la libertà.
Fui modella per le pagine patinate di Vogue fino a quando non spiccai l’ennesimo volo alla volta di Parigi per fare un lavoro che poche donne avevano il coraggio di intraprendere: la fotografa.
Ricordo ancora le giornate in studio con Man Ray, il suo amore passionale così forte da farmi divenire la sua Musa. Ma anche questo ruolo soffocava la mia libertà. Tornai negli Stati Uniti e qui aprii il mio studio di fotografia. Non posso spiegarti la gioia che provai. Fu una felicità, purtroppo, effimera che si spense al primo soffio di vento.
Sposai un ricco egiziano e mi trasferii lì, in Egitto: mi attendeva Il Cairo. Qui, godetti della pace del deserto. Con un po’ di sforzo posso sentire ancora la sabbia rossa scorrermi tra le mani.
Le stesse mani che oggi stringono mio figlio Anthony. Lo osservo e mi ricorda i volti di quei bambini che resi eterni nell’inferno di Dachau e Buchenwald. Scatti che furono come un pugno nello stomaco. Avrei voluto urlare tutto il dolore, ma ogni suono mi morì in gola.
Cara Maria, ho perso la mia anima laggiù.
La trovo riflessa solo nel ritratto che mi fece Picasso, perché è così che sono: scomposta.
Sono tornata in Gran Bretagna e vivo una vita tranquilla nelle campagne del Sussex. Mio figlio piange, ma io non me ne curo. Mi sembra di vedere il tuo volto corrucciato mentre leggi queste mi parole ma non ti crucciare: a dargli il biberon ci pensa la balia. Io sono troppo attaccata alla mia bottiglia e ai ricordi e a quella libertà che non ho mai tradito.
E che ne resta alla fine? Cenere, alcol e il dito di mio figlio puntato contro.
Ma allora, mia cara Maria, che prezzo ha la libertà?
Tua, Lee
Cosentina classe 1995, laureata in Biotecnologie per la Salute.
Amante delle fiction al punto da conoscerne molte a memoria, legge sempre le interviste ai protagonisti e alla regia e adora sbirciarne il backstage, per comprendere a pieno il lavoro e la fatica che stanno alla base di un qualsiasi progetto.
Attenta e paziente osservatrice, ha spiccate doti di diplomazia e imparzialità.
Appassionata di scrittura, cinema, lettura di romanzi e musica!