Dio, non raccogliere dal mio nespolo

"Sai, Dio, quelle crepe sono piccole solo all’inizio. Ma se batti, e batti, e batti, e batti e ancora cazzo batti alla fine le cose si rompono. Le persone si rompono."

Cara Angela non mi sono dimenticata di te ma quest’anno il nespolo si è ammalato, forse per empatia.”

È bastato un solo messaggio, l’odore delle nespole, la malinconia che cerco a tutti i costi di reprimere, per rompere un muro fatto di sorrisi e saggi consigli.

È che lei è malata, come quel nespolo. 

È che vedo tante, troppe persone malate attorno a me, molte nell’anima ed a loro, non si sa per quale strano disegno, non succede mai nulla.

Vedo, sento tante, troppe cose malate e pensieri malati riempiono i cieli.

E quindi mi arrabbio con Dio, uno degli innumerevoli litigi con lui. Mi arrabbio perché come fa a non vedere quanto dolore stiamo vivendo?

Come fa a non vedere quante anime pure stiamo prendendo?

Perché non lascia quaggiù quelle belle? Perché vuole anche il mio nespolo? E non perché sia il “mio” nespolo, sia chiaro, ma perché quel nespolo regala frutti succosi e saporiti che mi rimandano a periodi che sembrano lontanissimi, fatti di profumi e sensazioni che sembrano risalire a secoli prima della pandemia.

È tutta colpa del Coronavirus, dicono. Ci ha separati, ci ha lasciati soli con i nostri mostri, con i nostri rimpianti, rimorsi e crisi d’identità.

Dio, io ne sto avendo una proprio in questo periodo. So cosa vuol dire perdersi tra i rintocchi dei secondi e ritrovarsi, per puro caso, nelle piccole cose.

È lì che si nasconde l’essenza.

Forse allora mi sono ritrovata in un nespolo, nel nespolo di B. che si è ammalato, per empatia.

Quella che non provano gli esseri umani, allontanati dal virus ma soli dai tempi dello sbaglio di Eva.

E allora Dio, nuovamente ti chiedo, perché da questa terra vuoi i frutti più buoni? Sei forse un famoso commerciante che sceglie e raccoglie solo i prodotti migliori?

E allora, Dio, a noi, su questa Terra, cosa lasci? I frutti marci? O qualcuno di quelli buoni intendi farlo rimanere, almeno per darci un po’ di speranza?

È che Dio, vedo tanta gente morire. Tanta. Vedo i bambini di Zuwara, i loro corpi immersi nella sabbia come se quei granelli volessero sopperire alle nostre mancanze, concedendogli un velo di pietà, a riparare quella vita di carne dagli sguardi indiscreti di chi non vede.

Rivedo, nella mia testa, le bare di Bergamo. Nel silenzio di quella notte, ho fatto il primo ed ultimo singhiozzo che mi sono concessa in tempi di pandemia. E sai perché Dio? Perché mi sono detta “già gli altri hanno motivo di soffrire… I fortunati devono regalare solo sorrisi”.

E così ho fatto, Dio. Molti di noi hanno fatto così, Dio. Hanno elargito sorrisi e parole cariche di aforismi per tirare su il morale agli altri ché se hai solo una crepa, non puoi aggravare chi è a pezzi.

Sai, Dio, quelle crepe sono piccole solo all’inizio. Ma se batti, e batti, e batti, e batti e ancora cazzo batti alla fine le cose si rompono. Le persone si rompono.

E gli atti di pura, immensa gentilezza, sciolgono il dolore per usarlo come collante. Per riparare, certo. Per rimettere insieme i cocci pesanti che ognuno di noi tiene nell’incavo della clavicola, in quella piccola depressione di carne che hai voluto per il nostro corpo.

Li teniamo nell’incavo di sinistra, Dio, perché quei pezzi possano essere sempre vicini al cuore.

Soprattutto perché, tante volte, sono pezzi di persone che non ci sono più.

E quindi Dio, lasciaci anche le persone belle, quelle che per magia fanno il collante.

Questo mondo che vomita sofferenza, ha bisogno dei loro sorrisi.

Lasciaci B. e tutte le persone come B.

E lasciami anche il mio nespolo, Dio.

Sono tanto stanca, 

alla sua ombra, potrei riposarmi.

Giusto un po’.

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