"Eppure, pur non volendo, tu del male me ne facevi lo stesso, specie quando, bisognoso e fragile, tornavi da me con la coda tra le gambe, un cane abbandonato col pelo ingrigito, infradiciato dalla pioggia".

Un amore di eventi minimi, come succede nei bar piccoli; un amore di emozioni poche, di troppe frasi che andrebbero urlate, dette, invece, sottovoce.

Valentina Dorme, “Io non sono forte”

Ancora oggi, se qualcuno mi chiede di te, le parole mi muoiono in gola; non trovo una via di fuga, uno scampo, una cura… tu sei ancora qui, incastrato tra le maglie di una memoria che stenta, ma non si arrende.

Ricordi la candela sul tavolo? Quella che c’accese un cameriere, un paio di estati fa, perché eravamo “proprio una bella coppia”?

Te lo ricordi l’odore di paraffina che si mischiava, pungente e denso, alle note fruttate di un Amarone che mandammo giù di fretta, come fosse una medicina?

Nessuno dei due ebbe il coraggio di dire al cameriere che no, non eravamo una coppia.

«Ma sembra davvero che stiamo insieme?», mi hai chiesto preoccupato al terzo calice.

Avevi gli occhi talmente lucidi che, per un istante, non vidi più le iridi. Il bianco caldo dei tuoi bulbi aveva inghiottito il castano deciso del tuo sguardo.

«No, ma va, tranquillo –, sorrisi appena; avrei voluto allungare una mano e accarezzarti il viso, ma mi trattenni, – ne ordiniamo un’altra?» ti dissi, poi, ammiccando verso la bottiglia vuota, nel tentativo estremo di affondare nel vino ogni nostro ragionevole dubbio.

Ricordi la prima volta che abbiamo camminato insieme?

Ti lessi a voce alta qualcosa che ho dimenticato. Fu allora che mi hai confessato, imbarazzato, che non ti piaceva la poesia ché i versi tu non li capivi.

«Pensa che io non ti capisco, eppure mi piaci.» ti ho detto.

«O forse ti piaccio proprio perché non mi capisci?» mi hai risposto.

Ridemmo di gusto, rumorosi, davanti alle saracinesche abbassate di una banca.

Fu allora, con le ginocchia flesse dallo sforzo, che trovai il coraggio di sfiorarti. Posai, incerta, le dita su una tua spalla. Mi aggrappai a te, ma la resa fu breve.

Un leggero fremito sotto ai polpastrelli mi avvertì che la tua pelle mi stava rigettando. Ritirai, ferita, la mano e me la strinsi nell’altra su un cuore che, arrabbiato, mi scalciava nel petto.

Ricordi le nostre sigarette divise, ciccate fuori dal balcone? Le mie risate trattenute e la tua crudele ingenuità? Ti ricordi le mie remore codarde e le tue labbra bastarde, che mi hai concesso sì, ma solo un istante?

Certe notti ti osservavo con un’intensità tale che, a furia di guardarti, mi veniva l’emicrania.

«Che hai?» mi hai domandato una sera, aspirando piano quel che avanzava del tuo mozzicone e sbuffando poi via il fumo contro il vetro.

«Ho un leggero mal di testa.»

«Se vuoi, vado via.»

Esitai.

«No, non andare.»

Così, spenta la sigaretta sul davanzale, ti sei seduto accanto a me.

Come un randagio dimenticato, mi sono raggomitolata nel piccolo spazio che mi avevi lasciato, mentre la tua mano, per la prima volta, cercava la mia.

Ricordi le nostre telefonate chilometriche, le discussioni impegnate – il mio rifugio, un posto caldo, quando fuori tira vento? E le liti, quelle pretestuose e violente?

Ti ricordi le mie parole urlate, dette solo per non dire altro?

Ti dichiarai il mio amore, quando non potei fare altrimenti.

Se non mi avessi costretta, avrei tenuto per me questo dolore da poco. In fondo, gli ero affezionata, così come ero affezionata a te.

Restammo in silenzio a fissarci.

«Ti amo anche io, almeno credo.» mi hai sibilato: “ti amo anche io, almeno credo”.

Alcuni giorni, quando mi è del tutto impossibile relegarti in un angolo della mia mente, me lo ripeto a mo’ di mantra. Hai perso questo, mi dico, Anna, hai perso questo.

Ricordi tutte le volte che ci siamo salutati con un addio?

«Non voglio farti del male – mi ripetevi, prima di andare via, stropicciandoti gli occhi con le nocche – Non voglio farti del male, Anna, perdonami.».

Eppure, pur non volendo, tu del male me ne facevi lo stesso, specie quando, bisognoso e fragile, tornavi da me con la coda tra le gambe, un cane abbandonato col pelo ingrigito, infradiciato dalla pioggia.

Ti guardavo arrivare sporta dalla finestra, con gli occhi rotti dall’emozione.

Per quanto ci obbligassimo ciclicamente al distacco, ogni nostro ritorno, ogni tuo pentimento erano per me una gioia nuova, un miracolo festoso.

Ricordi quando mi hai intimato di dimenticarti?

L’ultima volta che ci siamo visti, mi hai detto che saresti partito.

«Adesso possiamo voltare pagina. – mi hai sussurrato in un orecchio – Ora possiamo andare avanti. Voglio che in te di me non resti nulla. Dimentica tutto, anche il mio nome.»

Hai sempre scelto tu per entrambi, avrei voluto ribattere, hai sempre scelto tu per entrambi, avrei voluto ripetere, ma non ce l’ho fatta.

Così, inerme e immobile, ti ho guardato sfumare in mezzo alla folla, mentre i tuoi contorni si confondevano, sbavati, con quelli anonimi dei passanti.

Ti sei congedato dalla mia vita così come ci sei entrato: all’improvviso e senza concedermi il diritto di replica.

Ricordi la candela sul tavolo? Quella che c’accese un cameriere, un paio di estati fa, perché eravamo “proprio una bella coppia”? C’ho soffiato su.

Adesso non brilla più. Ovunque tu sia, puoi stare tranquillo: il nostro segreto è salvo.

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