"Il mondo tornerà a brillare. Anzi, a ballare!"

Armonia.

È questo che mi ha, da sempre, suscitato la danza. Ovviamente sono una credente non praticante.
Immaginatemi in tutù e corpetto. Nah, non ha mai fatto per me. Eppure mi ha sempre affascinata l’armonia delle forme di un corpo ben definito. Mi ricorda le sculture di Michelangelo, scolpite nei minimi dettagli. Non è poi questo, la danza? Una forma d’arte, di espressione. Un fuoco che brucia dentro, che arde e deve esplodere.

Anzi, mi correggo: la danza è la massima espressione dell’arte: mentre si balla, un ballerino crea, fa la sua opera. Ed è unica: perché ogni movimento, per quanto possa essere simile nelle varie repliche, avrà un dosaggio di respiri, battiti, diverso.
Ma… cosa potrebbe accadere se si togliesse il palco ad un ballerino che esibisce se stesso? Dove potrebbe esprimere la sua arte, il suo estro, il suo bisogno? Dovremmo chiederlo al 2020. Anzi, forse no. Perché il 2020 non ha tutte le risposte che cerco.

E allora ho deciso di chiederlo a Veronica Tundis, ballerina professionista classe 1990, che nel 2010 inizia a lavorare con la Compagnia Nazionale del Balletto esibendosi all’interno dei Musei Capitolini e poi con Spellbound Junior Ensamble diretta da Mauro Astolfi nello spettacolo “The Knowledge”. Dal 2014 è una danzatrice freelance e ha preso parte ai maggiori festival europei danzando in giro per il mondo tra Arabia Saudita, Marocco, Irlanda, Romania, Lituania ed Italia. Questo finché non è arrivato lui, il temutissimo VentiVenti.

Ho fatto due chiacchiere con lei parlando del progetto che lei stessa ha creato durante il lockdown

Come ci si sente a sentirsi tagliati fuori dal proprio contesto lavorativo a causa di una pandemia? Che cos’hai vissuto quando hai compreso cosa stava accadendo, non solo a te, ma al mondo della danza?  

“Trovarsi da un giorno all’altro impossibilitata a svolgere praticamente il mio lavoro, quello di ballerina, di insegnante, mi ha fatto sentire privata della mia identità. Ci si rende ovviamente conto di essere in un momento storico globale molto delicato, ma allo stesso tempo ci si vede scivolare via dal corpo una vita di dedizione, impegno e studio. Tanti anni impiegati a costruire delle certezze, che nel mondo dell’arte – si sa – sono già molto instabili, soprattutto per la figura di un danzatore, per cui il lavoro fisico costante e lo studio giornaliero sono essenziali per mantenere degli standard qualitativi alti, crollati nell’arco di pochi istanti.

In una visione più ampia, guardando all’intero mondo della danza e dell’arte, l’essere messi così in disparte, l’essere dimenticati e declassati ad attività superflua è completamente mortificante, non solo su un piano pratico, ma anche su un piano educativo e ideale: viviamo in uno stato che preferisce far passare ai giovani il messaggio che è meglio chiudere l’arte e la cultura piuttosto che le sale slot.
Fermo restando che ogni mestiere è importante e merita rispetto e fermo restando che una crisi sanitaria necessita delle dovute misure cautelative, c’è una generazione di ballerini che sta vedendo la sua carriera cessare prima del tempo, ed una generazione di allievi che sta perdendo dei momenti di formazione essenziali, per poi immettersi nel mondo del lavoro in maniera qualitativamente competitiva.

Ci sono ragazzi che stanno vedendo i propri sogni infrangersi e professionisti privati della loro unica fonte di sostentamento, ma tralasciando il piano ideale, ci sono lavoratori e aziende, perché le compagnie di danza, le produzioni e affini, sono aziende a tutti gli effetti, che non riusciranno a superare questa pandemia.
Ci sono spettacoli, molti dei quali amatissimi dal pubblico, i cui costi sono elevati per numero di interpreti, scenografia e quant’altro, che rivedremo in scena (si spera) dopo molto tempo dalla riapertura dei teatri, perché le aziende non potranno sostenerne i costi nell’immediata riapertura.”

Cosa ti ha spinto a creare “Dance Conversation“?

Dance Conversation è un progetto personale a cui pensavo da tempo e che ha praticamente preso vita ad aprile e nasce dalla voglia di sostenere tutti i giovani danzatori che studiano per diventare professionisti. Ripercorrendo i miei anni di studio, e stando a contatto per la maggior parte delle mie giornate nel corso degli anni con studenti spesso molto giovani, mi sono resa conto di come, di frequente, il giudizio che abbiamo su noi stessi, ed alcuni meccanismi legati al contesto competitivo del mondo della danza, portino i ragazzi ad un’autocritica non sempre costruttiva e ad una idealizzazione degli altri danzatori, soprattutto quelli a cui più ci si ispira, che molte volte li fa dubitare delle loro potenzialità e qualità.

Allo stesso tempo, stando anche molto a contatto con danzatori e coreografi di fama internazionale, mi sono resa conto di come dietro ogni artista ci sia come prima cosa un essere umano con i suoi dubbi e le sue esperienze, positive e negative, con il suo percorso, ovviamente diverso, ma allo stesso tempo molto simile a quello di ogni allievo e di ogni altro artista se guardato da un lato più emotivo.
Raccontare le storie di questi artisti tramite le loro parole, le loro esperienze, le loro cadute, ma anche i loro momenti più alti e soprattutto farle raccontare a loro stessi in prima persona, in diretta sui canali social (che in questo senso sono una risorsa preziosa), in maniera tale che i ragazzi stessi, o gli appassionati di danza possano interagire con quelli che per loro sono degli esempi, è un modo per incoraggiare le nuove generazioni di ballerini a credere in se stesse.

Allo stesso tempo, parlando anche di temi più burocratici o riguardanti la parte teorica della danza o delle audizioni, è un modo per far conoscere loro il mondo lavorativo della danza, fatto non solo di allenamenti e spettacoli, ma anche della necessità di conoscere in quanto lavoratore i propri diritti, i propri doveri e avere gli strumenti adatti per confrontarsi con il mondo reale al di fuori della bolla dorata della scuola di danza.”

Se dovessi descrivere le sensazioni provate in quest’anno, riusciresti a trovarne qualcuna che sia positiva e di speranza? 

“Credo che nonostante i tanti aspetti negativi legati a questa pandemia che tutti conosciamo, ci siano comunque stati dei momenti e risvolti positivi in questo periodo. Personalmente ho colto quest’occasione per comprendere al meglio come far evolvere la mia carriera professionale, mi sono presa del tempo per individuare quali fossero gli aspetti che volevo valorizzare e quelli che invece ormai erano solo parte della routine giornaliera ma non più costruttivi, così come mi sono resa conto che spesso ci nascondiamo dietro la mancanza di tempo per non dedicarci ad alcune attività o cose che amiamo.

Credo che da questo punto di vista la pandemia ci abbia dato l’opportunità di guardare alle nostre vite un po’ più da spettatori che da attori, dandoci così una maggiore capacità di analisi e facendo sì che essendo a volte distanti dagli affetti anche più stretti, ogni scelta e decisione fosse dettata strettamente dalle nostre necessità. In questo senso, secondo me, questo momento, se sfruttato nel giusto modo, è stato molto positivo e costruttivo: è stata quella seconda possibilità che a volte rincorriamo pensando che non arrivi mai. Detto questo, però, adesso ci mancano i teatri, ci manca la scena, il pubblico, le estenuanti giornate di prove e di studio, e non vediamo l’ora di poter tornare a far sognare il pubblico dal vivo e non solo in streaming!”

Ed è proprio così: mancano a tutti noi i teatri, mai come quest’anno. Come non è mai stato prima e, questa, è una vera e propria conquista.
Un grande in bocca a lupo a tutti i ballerini, danzatori e coreografi: il mondo tornerà a brillare.
Anzi, a ballare!

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