“E tu cosa vuoi fare da grande?”
“L’astronauta!”
Quanti non hanno risposto così, almeno una volta, alla domanda puntualmente proposta in età da lattante dalla zia decrepita, col rossetto sbavato e che puzzava di naftalina?
Beh, personalmente non l’ho mai detto, ma credo che questo dipenda dalla consapevolezza, da me prematuramente raggiunta, di essere claustrofobica.
Ad ogni buon conto, questa è un’altra storia.
E non avevo neanche una zia decrepita, col rossetto sbavato e che puzzava di naftalina.
Sto decisamente uscendo fuori tema.
Netflix, come il settore cinematografico tutto, sta rimpinguando notevolmente le proprie tasche grazie alle ardite gesta degli astronauti. È stata proprio “Away”, una serie molto in voga ultimamente, a fornirmi l’assist per affrontare una tematica poco conosciuta e, a mio modesto avviso, volontariamente poco affrontata: i danni fisici e, più in generale, gli stati patologici determinati dai viaggi nello spazio.
Obiettivamente: chi mai continuerebbe a sognare di poggiare i propri terrestri piedini sulla luna o sul Pianeta Rosso se sapesse di poter divenire cieco o di poter passare il viaggio tra dissenteria e vomito?
Tra i malesseri più diffusi tra i cosmonauti, sperimentata da ben il 45% di questi, vi è la SAS, meglio conosciuta come “Sindrome da Adattamento Spaziale” o “mal di spazio”: il primo cosmonauta a sperimentarla fu German Titov il 6 agosto 1961, a bordo della Vostok 2 nell’ambito di un programma spaziale sovietico. Il buon Titov, sin da poco dopo il lancio, cominciò ad accusare scarso appetito e, costrettosi ad ingerire forzatamente del cibo, manifestò nausea e vomito. Beffa delle beffe, il lancio della Vostok 2 serviva, nell’ambito della sperimentazione sovietica, proprio a testare la risposta del corpo umano all’ambiente spaziale.
Per Titov, il più giovane cosmonauta mai esistito, a causa dei sintomi manifestati, la missione non solo fu la prima ma fu anche l’ultima. La ragione del “mal di spazio” che ha messo la parola fine alla brillante carriera del giovane cosmonauta? La SAS sembrerebbe collegata all’impossibilità, per il corpo umano, di “elaborare” i segnali contrastanti ricevuti dal cervello e dagli organi sensoriali rispetto agli input recepiti dall’apparato vestibolare (responsabile del nostro equilibrio) in assenza o in ridotta gravità. Motivo per cui la sindrome tenderebbe a manifestarsi con più intensità in ambienti che permettono ampia libertà di movimento.
Oltre al vomito e all’inappetenza di Titov, la SAS consta anche di diarrea, nausea, cefalea e malessere diffuso. Insomma, i sintomi di quella che sulla Terra sarebbe una brutta influenza ma che, nelle navicelle spaziali, può diventare un bel problema.
Se la SAS è comunque connotata da una certa “prevedibilità” (un po’ come il mal di mare e il mal d’auto), per altri stati patologici che colpiscono i cosmonauti non si può dire altrettanto: l’assenza di gravità tende a peggiorare lo stato delle ossa e può comportare la cd. “cecità spaziale”. Se, infatti, da un lato l’assenza di gravità rende i movimenti più semplici, dall’altro tende ad intorpidire l’apparato muscolo-scheletrico, determinando un minore fabbisogno di calcio per le nostre ossa. Il calcio in eccesso viene quindi espulso in generose quantità attraverso le urine cosmonautiche (cui, con l’aiuto di diete troppo ricche di grassi e sale, si associano i calcoli cosmonautici, e lo sa bene Anatoly Berezovoy). Una volta tornati sulla Terra, si è quindi certamente più esposti a fratture e osteoporosi.
In merito alla “cecità spaziale”, la conferma della misteriosa malattia descritta in “Away” è arrivata direttamente dalla NASA: Scott Kelly, tra il 2015 e il 2016, ha passato un anno presso la Stazione Spaziale Internazionale e, proprio durante questa permanenza, l’astronauta ha sperimentato un generoso ispessimento della cornea con connesse difficoltà visive. Il motivo sarebbe da ricondurre ad una cattiva circolazione sanguigna che andrebbe ad incidere anche sugli occhi, tra le parti del corpo più sensibili in tal senso. Per alcuni astronauti, questi problemi alla vista sono perdurati per un tempo notevole anche una volta tornati a casa.
Sempre la cattiva (se non pessima) circolazione dei fluidi (che interessa il sistema linfatico e sanguigno) comporta un altro fenomeno davvero preoccupante: una “ovalizzazione” del muscolo cardiaco. Sì, avete capito bene: il cuore di questi leoni, durante i loro “voli”, tende a divenire più sferico. Questo atteggiamento sferico sembrerebbe dovuto al ristagno dei liquidi nella parte alta dell’addome e alla “pigrizia” che colpisce il sistema circolatorio ed il cuore. Quest’ultimo, come un po’ il resto del corpo, poiché non sottoposto allo stress della gravità, tende a perdere massa muscolare.
James Thomas, insieme ad un team di ricercatori, per conto della NASA, ha insegnato ai cosmonauti della Stazione Spaziale Internazionale ad usare sofisticate apparecchiature per “scattare delle foto” ai loro cuori nel corso della missione. Risultato? In assenza di gravità, il cuore degli astronauti diventa più sferico del 9,4%. Nelle missioni di sei mesi, l’alterazione sembrerebbe risolversi gradualmente una volta tornati a casa, ma si può facilmente immaginare che le conseguenze di questo pur temporaneo mutamento non siano comunque positive.
Potremmo in realtà parlare anche dei “batteri spaziali”, che tendono ad abitare le navicelle e che creano non pochi problemi ai cosmonauti, o della ipotensione ortostatica che colpisce gli astronauti al rientro, ma non basterebbe un solo articolo. È invero importante sottolineare come la pressoché totale reversibilità delle patologie collegate alla permanenza nello spazio dipenda anche dal tempo, relativamente limitato, delle attuali missioni. Qualora decidessimo di partire per Marte, un tragitto lungo circa un anno e mezzo, le conseguenza potrebbero essere decisamente più gravi.
Ma ancora non possiamo saperlo, giusto? Siamo esploratori e il baratro dell’ignoto, come per Ulisse, non ci ha mai fermati, anzi.
Speriamo solo che nessuno perda pezzi di tallone.
Disclaimer: l’ultima affermazione non ha basi scientifiche ma, hey, qualcosa di “Away” no-spoiler dovevo pur metterla (chissà che non arrivi una recensione).
Ah, comunque da piccola io volevo fare la parrucchiera. Giusto per dovere di cronaca.
Ad un giuramento dall’essere avvocato, classe 1993, romana D.O.C.
Laureata in Giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli con votazione 110/110, specializzata in Diritto del Lavoro e Responsabilità Professionale, parla fluentemente inglese a livello C1 grazie ad una parentesi di studio presso il Griffith College di Dublino.
Collaboratrice del Quotidiano del Sud dal 2019 e Vicedirettore di“Iuris Prudentes”.
Appassionata di pittura, lettura, psichiatria e shopping!