La consapevolezza dell’esistenza di una sfera pubblica e di una privata è qualcosa di tipicamente umano, esule da ogni altro essere vivente sulla Terra. Non v’è momento storico in cui le civiltà, dai Greci ai Romani, fino alle più moderne, non si siano interrogate circa la definizione di un confine e l’attribuzione di un significato, pragmatico, di azione, per ciascuna delle due.
Intuitivamente, siamo abituati a pensare a quella privata come la sfera dell’individualità in senso lato: la sede di tutte le opzioni di scelta individuale, connotata dalla sfera sentimentale, fino alle proprie tensioni religiose, ma anche dalle relazioni umane più personali; mentre a quella pubblica afferisce tutto ciò che concerne lo spazio della socialità comunicativa dei singoli nel momento della loro inter-azione (Habermas). Le riflessioni di questo articolo vertono verso un’unica direzione meditativa: quanto di queste intuizioni è reale nell’era dei “nuovi media” (o ubiquitous media, secondo il sintagma coniato dal sociologo britannico Mike Featherstone)?
Intimità
Nel 2020, le pareti che segnavano la trasposizione fisica della separazione tra interiorità ed esteriorità, tra fuori e dentro, tra mio e vostro si sono inesorabilmente frantumate per dissolversi nell’oceano cibernetico, nel quale la distinzione tra identità sociale, virtuale e personale – assottigliandosi fino all’impalpabilità – lascia il singolo, paradossalmente, sguarnito della possibilità di muoversi in uno spazio di esistente alternativo.
Ciascuno, sui social, finisce per vomitare letteralmente sé stesso: ci mostriamo, discutiamo, ci confessiamo, aggiorniamo i nostri seguaci sull’andamento delle nostre diete, delle nostre relazioni, delle nostre paturnie, dei nostri più profondi pensieri; della nostra intimità.
Cosa ne è della nostra intimità?
Intimo è ciò che per definizione sta dentro, che riguarda la nostra radice e che fa parte di un segreto profondo, in parte ignoto anche a noi stessi. L’intimo, il nostro segreto profondo, è qualcosa che è negato per sua stessa natura all’estraneo e che è persino accessibile solo in parte ai suoi titolari. Cosa si cela dietro le nostre emozioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre relazioni è qualcosa frutto di un’opera di riflessione, di un metabolismo interno in continua evoluzione tra consapevolezze e riscoperta.
Questa generazione è stata come abbacinata dall’idea che la vera libertà risieda nella possibilità di plasmare, fino allo snaturamento, ogni cosa, nella convinzione che tutto sia trattabile e manipolabile senza particolari conseguenze, perché la libertà, secondo quest’ordine di cose, corrisponde all’assenza di limiti all’azione. In quest’ottica, il pudore e la preservazione sono viste come un limite, un disvalore, e da certa psicologia – malpensante – anche come una forma di repressione. Oltre a constatare banalmente che la libertà risiede nella consapevolezza delle azioni, piuttosto che nella possibilità materiale di compierle, siamo sicuri che sia realmente così? Il pudore è veramente un disvalore?
Pudore
Il pudore, difatti, non ha nulla a che vedere con il bigottismo o il moralismo.
Non ha a che fare con vestiti, mutande e reggiseni; scrive a proposito Galimberti: “si può essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della nostra anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla sulla nostra disponibilità all’altro”. Il pudore, dunque, ha a che fare con la nostra intimità.
Esso è strumento difensivo della nostra interiorità: è ciò che ci consente di stabilire, controllare, che tipo di relazione vogliamo instaurare con l’altro, come e in che misura concederci e aprirci alla possibilità di uno spazio in comune. Il pudore, pertanto, controintuitivamente al pensiero dominante il nostro tempo, è un baluardo della nostra libertà, non un suo strenuo nemico. Ci consente di mantenere e custodire il nostro segreto di fronte e in mezzo agli altri, creando una sfera di intangibilità e – psicologicamente – di salvaguardia.
Questo perché, nel momento in cui mettiamo nelle mani degli altri la nostra intimità, gliene stiamo concedendo la disponibilità: essere intimi significa poter riconoscere nell’altro qualcosa che gli appartiene e lo contraddistingue, ma che gli altri non possono vedere e di cui, addirittura, nemmeno il “proprietario” spesso può avere piena contezza. Senza l’integrità della nostra intimità, che poi è quella che custodisce l’identità emozionale, non saremmo neppure capaci di respirare: saremmo come soffocati nella massa; non a caso ci autodefiniamo “società di massa”.
La pubblicizzazione del privato
La società attuale è informata sulle strutture e le regole del conformismo, dell’omologazione e della cultura dell’immagine. Dietro la millantata “libertà di essere sé stessi” e l’esaltazione dell’individualismo, ciascuna individualità scompare perduta com’è in quelle serie di processi volti ad omologazione dei comportamenti, dei gesti e delle parole: pensiamo, parliamo, postiamo allo stesso modo, e se non lo facciamo, semplicemente, non siamo.
L’esistenza passa attraverso la nostra pubblicizzazione, la nostra esposizione (letteralmente, porre fuori).
Spesso sentiamo parlare di oggettificazione dei corpi, poco di oggettificazione dell’identità: qual è la differenza tra uomini e merci, persone e la loro immagine, vetrina e pelle, stories e storie? Un uomo che non si espone, che non ha nulla da mostrare di sé, semplicemente non esiste e desta semmai sospetto. Se non possiamo usare e consumare l’immagine altrui, semplicemente quell’immagine, quella persona, non irradia alcuno stimolo d’interesse nei nostri confronti, non la pensiamo esistente; al più possiamo chiederci che fine abbia fatto, se ne abbiamo memoria.
L’esibizionismo sfrontato come valore
La verità e l’autenticità, come per San Tommaso, passano dall’apparenza, dalla visibilità. Questo è un fenomeno che si spiega bene guardando la politica e il successo di certo populismo: la verità sta nella parola sfrontata e spudorata che ghermisce il mantello sordido del buon senso per squarciarlo dinanzi a tutti. La verità è un affare sporco che o si grida ad alta voce o non è tale. Perché la verità e la sincerità, non provano vergogna. Tutto ciò ha instillato in noi l’idea che l’interiorità sia reale solo quando viene mostrata, per cui al bando l’intimità e il suo pudore: non c’è nulla di cui ci si debba vergognare, perché la vergogna, per questa via, è fatta per gli insinceri.
Dalla mancanza di vergogna, si desume la verità, la sincerità e la mancanza di responsabilità o di colpe. Tuttavia, proprio la vergogna ha a che fare più con l’esposizione che non con la colpa. Non a caso, la parola vergogna sta per vereor gognam, ossia il timore dell’esposizione, della gogna. Non riguarda la colpa, bensì la sua esposizione, ed è connessa all’esigenza umana di preservare il proprio io, le proprie turbe d’animo, dagli altri, dall’opinione pubblica. Perché? Perché nel momento in cui la concedo agli altri, essa e me compreso diventiamo una proprietà collettiva (o meglio, proprietà del “pubblico”). Il mio vissuto, qualunque esso sia, divenendo disponibile agli altri, soggiace alla loro mano, alla loro bocca, alla loro intrusione. Chi sono io? Quel che io vedo o sento, o quello che vedono e sentono gli altri?
Secondo un recente studio della Royal Society for Public Health, Instagram è il social network più pericoloso per la sanità mentale in termini d’impatto sul singolo circa il proprio senso di comunità, di identità e di proiezione dell’immagine di sé (e ringraziate che sia stato creato quando ancora anche solo l’idea di Tik Tok non era balenata in testa a nessuno). L’individuo è come frammentato fra le sue molteplici istanze interne e, al contempo, pungolato dai continui stimoli della rete. Nel complesso, si introietta l’idea di non avere più non soltanto il dominio della propria immagine, spesso tendente verso quella conformata da standard elevati e irraggiungibili, ma finanche della propria identità e della propria interiorità.
Cosa resta nella nostra intimità?
Non il dolore. La sua esibizione, seguendo il copione, lo rende vero e autentico. Programmi televisivi e social premiano la sua esposizione pubblica, la sua umanizzazione, come quella dei suoi protagonisti, buoni o cattivi che siano. Il dolore e i sentimenti non passano dalla parola, dal logos che contraddistingue ed eleva il genere umano, ma sempre dall’apparenza visiva, dall’eidola come “immagine inconsistente”. Anche il dolore è merce da vetrina, più di quanto non lo siano sentimenti positivi (come l’amore, l’amicizia o la solidarietà).
Poco rimane sigillato all’interno di quel caveau, isolato e rimbombante di vuoto, che è la nostra intimità: la povertà e la solitudine. Ben nascosti, come pigiati in un angolo di quell’ampio vano buio, il senso di isolamento economico, quello della povertà, e sociale, quello della solitudine, trovano riparo ma non conforto tra i freddi pavimenti della nostra psiche, sfiancata dai solleciti speroni del mondo smart.
Sempre più connessi, più esposti, più condivisi e allo stesso tempo più divisi, soli, chiusi ciascuno nella propria bolla, consumati dalla propria identità edificata sulle fondamenta di uno schermo di 6 pollici da cui non riusciamo a vedere il fondo, nonostante la conquistata abilità nel raschiarlo.
Ma in fondo, anche questo è un pensiero intimo, no?
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!