MOVIMENTO CINQUE STELLE
La parola d’ordine per Giuseppe Conte, in questa campagna elettorale, è rebranding.
E parte da una rilevazione estremamente semplice: il crollo di consensi del M5S dal 2018.
Il primo punto programmatico è il ricollocamento politico a sinistra – dove è stato individuato un bacino consistente e accessibile di potenziali elettori – facendo però ben attenzione a non dichiararlo esplicitamente. Il M5S si definisce “progressista” e portatore di un’“agenda sociale”; ma, in osservanza a uno dei principi cardine del Movimento delle origini, rifiuta categoricamente l’inquadramento sull’asse destra-sinistra.
Tuttavia, a proporsi come portavoce degli ultimi vestendo abiti sartoriali, si rischia di risultare poco credibili. E quindi, al secondo punto del rebranding, Che Guevara in pochette deve svestire il completo, in favore della polo a mezze maniche: un outfit di appeal più proletario. Giacca e cravatta erano l’uniforme da PdC: abbandonarle serve anche a prevenire l’identificazione totale tra il Conte-premier del periodo 2018-2020 e il Conte-tribuno della plebe di questa campagna.
Agli occhi dell’elettorato, le due figure devono risultare scindibili: rievocare i giorni a Palazzo Chigi è utile per rivendicare la paternità di alcuni provvedimenti, ma non può diventare il leitmotiv della comunicazione – altrimenti l’elettorato potrebbe arrivare a chiedersi: se non ti è bastato avere 1/3 dei parlamentari dalla tua per fare ciò che prometti, come pensi di riuscirci ora?
In questa metamorfosi, l’impresa più ardua – ma fondamentale per ottenere risultati – è riuscire a far campagna elettorale da forza di opposizione, nonostante la presenza in 3 governi su 3 durante la precedente legislatura.
Il punto più importante del rebranding è, però, forse, quello legato al valore teleologico del voto al M5S; ovverosia rispondere alla domanda: a che fine darvi il voto?
Non ci sono più i toni rivoluzionari delle precedenti tornate: scomparsi i riferimenti alle “scatolette di tonno” da aprire, niente più rimandi a “quando saremo al governo”.
La parola vittoria è virtualmente assente nella campagna elettore di Giuseppe Conte. La destra chiede il voto per governare, la sinistra chiede il voto utile per impedire alla destra di governare; il M5S no: chiede un voto dal significato valoriale.
L’hashtag della campagna è #dallapartegiusta. Manca infatti nei discorsi di Conte ogni possibile riferimento a vincitori e sconfitti. Per chi, già in partenza, non ha reali possibilità di vittoria, è necessario investire in un messaggio diverso: non inviti la tua gente a muoversi per ottenere un risultato (su cui potrebbero nutrire dubbi o incertezze), bensì li mobiliti per schierarsi a favore di un’idea e di un progetto – e, in questo caso, non importa vincere o perdere, basta avere espresso l’intenzione tramite il voto.
Menzione di merito va a Conte anche per l’utilizzo scaltro dei social.
Invece delle tragicomiche figure di Salvini e Berlusconi su TikTok – quintessenza del cringe e rappresentazione plastica dell’“ok boomer” – le sue incursioni su TikTok e Twitch risultano più posate e mirate, nonché efficaci.
D’altronde, il M5S ha storicamente avuto nel voto giovane un serbatoio fecondo.
In questo, Conte è bravo nell’adottare una retorica incisiva: non si limita ad invitare al voto di protesta, ma prova ad assumere un atteggiamento appassionato e a toccare i temi sentiti dalla popolazione under 35 (precariato, povertà lavorativa, ambiente). In particolare, Twitch, a differenza degli altri social presenta delle peculiarità interessanti per i politici a caccia di voti. Innanzitutto, non serve avere un proprio account, anzi: meglio andare su invito dai creators di professione, che mettono a disposizione format e audience già collaudati; secondo, favorisce la comunicazione verbale bidirezionale ed estemporanea (il format è quello dell’intervista, con ampio margine per gli interventi del pubblico), con l’ulteriore plus che i temi trattati sono spesso diversi da quelli tipici dei talk show televisivi, ed è permesso uno stile più spontaneo e meno abbottonato; terzo, consente di indirizzarsi in maniera più mirata ad un elettorato interessato ma potenzialmente indeciso, che sceglie attivamente di informarsi su Twitch, e che quindi può essere un mezzo molto efficace per riscuotere consensi.
Quella di Conte è una campagna elettorale incentrata sul più spregiudicato opportunismo: tutto, dai temi proposti agli outfit indossati, dalle parole scelte alle piattaforme utilizzate, sembra studiato in laboratorio per massimizzare la riscossione di consensi in un tempo breve. Un’operazione di post-verità, in cui tutto ciò che conta è il presente, qui e adesso, ciò che viene detto e promesso ora; il passato è ora una fonte a cui attingere per rivendicare successi, ora un guazzabuglio confuso da riscrivere per far dimenticare precedenti scelte discutibili o poco in linea con l’attuale programma; e il futuro è dipinto come un’utopia a portata di mano, ma, ad uno sguardo più attento, i contorni sono spesso sfumati e la sensazione è che manchi un progetto unitario nel disegno.
TERZO POLO
Cenerentola della campagna elettorale, il Terzo Polo, guidato dal Manager Pariolino Carlo Calenda, si ritaglia il “centro” di queste elezioni con uno scopo preciso: sgominare i populismi di qualunque frangia e offrire un’alternativa credibile nei confronti di chi non si riconosce nei partiti più tradizionali.
Per portare a termine questa impresa di redenzione dell’Italia, il leader del Terzo polo ha optato, con (poca) lungimiranza, per un compagno di viaggio che già da tempo può vantare nel proprio curriculum personale la lotta al populismo e ai partiti tradizionali come il PD – di cui peraltro è stato pure segretario: Matteo Renzi.
Carlo e Matteo. Matteo e Carlo. Aveva ragione Antonello Venditti quando cantava “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, perché quella della strana coppia Calenda-Renzi è – come tutti sapranno – una storia di certo non nuova.
D’altronde hanno entrambi molti punti in comune: il loro personaggio storico preferito è Giuda (sarà un caso che Calenda abbia baciato Enrico Letta proprio prima di recidere definitivamente la coalizione col PD?); entrambi custodiscono sul comodino la famosa “Agenda Draghi”, un manufatto biblico, tra mito e realtà, ricercato nel mondo quasi quanto il Sacro Graal, che leggono segretamente al telefono ogni sera prima di andare a letto; hanno una spasmodica passione per tutto ciò che porta con se un’impronta liberista, e la povertà, a loro, proprio non gli piace. Qualunque manovra sussidiaria nei confronti della povertà viene tacciata come retribuzione per stare a casa e “rovina di una generazione” (cit. Renzi). In buona sostanza, incarnano la sinistra all’americana, ossia una destra “rassicurante” che se sul piano dei diritti civili è molto progressista, su quello del lavoro e dei diritti sociali strizza l’occhio alla grande imprenditoria e alla finanza europea. Tra l’altro, e giusto per la cronaca, il primo tentativo di ingresso in politica di Carlo Calenda si concretizza proprio fra le liste di Scelta Civica dell’ex premier e consulente di Goldman Sachs Mario Monti.
Ergo, l’amore per i banchieri è un retaggio da complesso di Edipo.
Peraltro, il leader di Azione si è contraddistinto in questa campagna elettorale per essere in assoluto il più prolifico e attivo sui social tra i protagonisti delle elezioni, sorpassando persino Salvini per numero di tweet.
Il leader di Azione ha come caratteristica comunicativa uno stile molto diretto, forte, in alcune circostanze addirittura aggressivo.
La sua aggressività sui social assume i toni del sarcasmo da blastatore, ciò spesso allontana il suo pubblico, dal momento che non mostra esattamente toni differenti da quelli usati da chi stigmatizza come “populista”.
Lo slogan dell’intera campagna elettorale, #italiasulserio, ha uno scopo preciso: distinguere un noi, portatore di valori di affidabilità e serietà, da un loro, menzogneri, urlatori, populisti.
La misura comunicativa di Calenda si inscrive nell’affermazione di un valore di realismo pragmatico, serietà e competenza, tracciando la linea di demarcazione con tutto ciò che sta al di fuori del suo perimetro politico: populisti incompetenti da una parte, nazionalisti scellerati e retrogradi dall’altra.
Ciò gli ha consentito di ritagliare per sé un ruolo preciso nell’immaginario politico degli elettori: quello della “persona seria”.
Il limite di Calenda, però, – oltre Matteo Renzi – è proprio Calenda stesso. La sua forza, effettivamente, è quella di esprimersi proprio come una “persona seria”: competenza, sicurezza, schiettezza e prese di posizione certe. A frenare la sua crescita politica e oratoria, talvolta danneggiandosi con clamorosi autogol, è la tracotanza con cui tratta qualunque interlocutore (politico, giornalista o elettore che sia), facendolo apparire, così, scarsamente empatico, accigliato e borioso nel contraddittorio; a tratti, specie su Twitter, dileggiante. La sua comunicazione contraddice il suo marchio politico, la serietà, concretizzando una discrasia tra serioso e arrogante che repelle l’interlocutore, impedendogli di entrare nel merito.
A tal proposito, l’intera campagna elettorale del Terzo Polo è stata improntata ad una forte continuità con il Governo Draghi.
Ciò ha costituito nel contempo un vantaggio e un ostacolo per il leader di Azione: se da un lato ha raccolto gli elettori scontenti per lo shock politico causato dalla caduta del governo dell’ex presidente della BCE, dall’altro ha rafforzato la continuità con un programma politico che lo stesso Mario Draghi non si è dato, ma che paradossalmente è proprio il risultato di un successo conseguito da uno dei più acerrimi avversari di Calenda: il PNRR di Giuseppe Conte. Non solo, la stessa continuità con Mario Draghi si è rivelata una spina nel fianco nel corso di tutta la campagna elettorale: «è l’unico che può fare il premier», tuonava perentorio il leader di Azione.
E anche a margine del breve matrimonio col PD, dichiarava che il segretario Letta non doveva farsi idee strane su una sua possibile premiership: «Dobbiamo fare di tutto per cercare di tenere Draghi a Palazzo Chigi».
Carlo Calenda, in pratica, è finito col mettersi nella classica situazione del “siamo fidanzati, ma lei non lo sa”. Non a caso, lo stesso Draghi, tirato in ballo più volte, ha affermato in una conferenza stampa e non senza buona dose di insofferenza, che no, non avrebbe rifatto il Premier. Solo a questo punto, capita l’antifona, Calenda ha affermato: «un Paese del G7 non deve dire o Draghi o la morte».
Ora, l’obiettivo del Terzo Polo è quello di ottenere almeno l’8% dei voti. Ciò sarebbe un vero successo elettorale, perché come gli ultimi anni di Governo ci hanno insegnato, spesso sono proprio i “piccoli partiti” a stringere quelle alleanze che tengono i governi e intere maggioranze in carica, afferrandole letteralmente per la gola.
Sarà per questo che Calenda avrà scelto Renzi, oppure si tratta semplicemente di masochismo?
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!