Nel 2021 nonostante la pandemia in atto, il boom delle serie tv e il dominio indiscusso delle piattaforme on demand, il cinema decide di non fermarsi. Men che meno il suo evento più iconico nella cultura di massa: gli Oscar. Non solo. L’edizione di quest’anno si è inserita plasticamente nel solco di quelle precedenti, attingendo in maniera ancora più incisiva al significato e al ruolo che il cinema intende occupare oggi nel mondo delle arti. La Settima Arte, in questi ultimi 10 anni, ha decisamente cambiato il suo volto. Sulla scorta dei drammi sociali, dei mutamenti indotti dai cambiamenti economici, dalle questioni relative ai diritti civili, il cinema si è svestito del suo abito più magico e artistico, per indossare le vesti più gravose dell’impegno morale.
Infatti, gli ultimi anni hanno visto uno spostamento della cinepresa verso le tematiche sociali ed esistenziali, che anche quest’anno tornano prepotentemente a contraddistinguere la rassegna cinematografica hollywoodiana. Il palco degli Oscar è oramai un pulpito sul quale vengono innestate le proteste e le richieste di giustizia alle quali la politica odierna è sorda, come sguarnita della capacità di elaborare risposte concrete e soddisfacenti. Ma l’arte è anche questo: provocazione e denuncia.
È passato quasi un anno da quando Parasite di Bong Joon-ho ha fatto incetta di premi nell’edizione telematica e stinta del 2020, eppure anche quest’anno l’ambita statuetta del miglior film si appresta ad essere conquistata – in maniera piuttosto prevedibile – da un film che racconta con la medesima acromia, con lo stesso grigiore, l’alienazione e l’isolamento dell’uomo contemporaneo di fronte alle necessità della vita e alle sue incombenze economiche. Infatti, a vincere l’Oscar come miglior film è Nomadland: un film che fa da contraltare alla risposta “parassitaria” del film vincitore dello scorso anno rispetto alle medesime domande esistenziali di cui il nostro tempo è fin troppo gravido. Con una regia che ricorda molto quella documentarista, – quella di Chloé Zhao, la bravissima regista ha appena segnato il record di prima donna cinese a conseguire l’ambita statuetta nella rispettiva categoria – che tende le redini della magistrale recitazione di Frances McDormand (anche lei conquista il titolo come migliore attrice per la terza volta), Nomadland è il racconto del nostro tempo: i nuovi poveri, la classe medio bassa dei lavoratori–consumatori, i nomadi, o, per dirla con le parole dello Stato Sociale, degli “ergastolani in tournee ma molto più sorridenti”.
Le medesime tematiche, seppure in modo completamente diverso, vengono ripercorse anche in altre pellicole presenti durante l’edizione, come Elegia americana o Minari, il film rivelazione di Lee Isaac Chung, una delle pellicole che ha riscosso più successo quest’anno, che, per fortuna ottimisticamente, racconta la storia di emancipazione di una famiglia asiatica negli anni ’80 in America, con humor ma senza lasciare privi di riflessioni ed esami di coscienza.
A farla da padrone, per il resto, sono due tematiche sempre più centrali negli Oscar degli ultimi anni: quella razziale afroamericana e quella femminile. I due temi si intrecciano in quello che è stato definito il documentario più bello di quest’anno, Time, la storia di una donna nera, inesauribilmente combattiva, imprenditrice e madre di sei figli maschi, che si batte strenuamente per vent’anni per ottenere il rilascio del marito in carcere, ma nell’ansia di ottenere il riconoscimento professionale tanto agognato. La stessa tematica poi viene ripresa con forza nel dramma di Judas and the Black Messiah, candidato a 6 statuette, che racconta la storia di Fred Hampton, leader delle Pantere Nere, e l’infiltrato FBI William O’Neal. Il film, uno spaccato sulla storia americane, più disorganica e frammentata di quanto non ci si aspetti, vede la grande prova di Daniel Kaluuya – che non a caso si aggiudica il titolo come miglior attore non protagonista – e LaKeith Stanfield, diretti con mano sapiente e attenta da Shaka King.
Sulla stessa striscia tematica troviamo Quella notte a Miami, con l’esordio alla regia dell’attrice premio Oscar Regina King, che narra la storia di una notte immaginaria in cui Cassius Clay, appena proclamato campione del mondo, va a festeggiare con gli amici Malcolm X, Jim Brown e Sam Cooke. Il racconto si nutre della fitta riflessione sui diritti civili, al tempo stesso onirica e realistica, che attraversa le parole, i dubbi e le posizioni degli interpreti storici sull’identità del movimento di emancipazione razziale, lanciando più di un monito sul dibattito odierno.
La questione razziale si intreccia nelle note più ritmiche del blues con Ma Rainey’s Black Bottom: un cast eccezionale dominato dall’ambizione energica e impaziente, stinta da un’inquietudine rabbiosa voglia di riconoscimento, di Chadwick Boseman (all’ultima interpretazione prima di morire che purtroppo non gli vale l’Oscar come miglior attore che invece va a Anthony Hopkins per The Father) e dalla straripante, unica e incontenibile potenza di Viola Davis, sempre più al centro del panorama degli interpreti contemporanei dalle prestazioni sempre più convincenti.
La questione di genere diviene preponderante con il doloroso Pieces of a Woman, una pellicola straziante e disarmante – che trovate pure su Netflix. Kornél Mundruczó guida il racconto di un dramma senza vincitori o lieto fine, una tragedia che disintegra due donne e una relazione, una disgrazia che non può trovare consolazione e che disarma lo spettatore fin dal primo minuto, con una sequenza travolgente e senza interruzioni, travolto dal montaggio e dalla recitazione di Vanessa Kirby; l’attrice, nota al grande pubblico per The Crown, infatti, è qui tanto emozionante e struggente nella sua interpretazione da aggiudicarsi già la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla 77ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia.
Una donna promettente, infine, riprende la tematica femminile attraverso una storia che se a tratti assume i connotati di un revenge movie, finisce con l’assumere nel corso della pellicola i toni di una denuncia altisonante pregna di messaggi morali. La protagonista, interpretata magistralmente da Carey Mulligan, è una giovane donna che ha abbandonato gli studi di medicina e vive ancora in casa con i genitori, i quali sperano che come ogni “brava ragazza” si trovi un fidanzato, torni “normale” per andare a fare la tiepida moglie altrove. Mentre di giorno lavora in un bar, la sera si veste in abiti mozzafiato e succinti, girando per i locali per poi fingersi ubriaca fradicia. Quando viene abbordata da uomini che si offrono di accompagnarla a casa per “proteggerla”, prevedibilmente si ritrova con le loro mani addosso, fino a quando d’improvviso da aggredita diventa aggressore sbattendogli in faccia tutto il loro misero squallore.
Il cinema rappresentato alla 93ma edizione degli Oscar diventa così istanza di giustizia passata – e da questo punto di vista si aggiunge anche Il processo ai Chicago 7, di cui vi abbiamo già parlato qui – e presente, ma con un monito diretto al futuro. Un cinema sociale che sempre più spesso rinuncia ad incantare autoinvestendosi di cause più elevate. La magia qui trova riparo solo nelle pellicole che richiamano i fasti di un passato perduto come Mank di David Fincher, il quale narra la storia dietro le quinte delle riprese di Quarto Potere, e in quelle di animazione, come Soul, che in una corsa solitaria si aggiudica in scioltezza la rispettiva statuetta come miglior film d’animazione; senza dimenticare però l’esilarante Borat 2, che vede sempre la presenza Sacha Baron Cohen, già in corsa per la statuetta con Il processo ai Chicago 7.
Piccola nota sull’Italia: fortunatamente non vince nulla la versione pop-indie di Pinocchio di Matteo Garrone che ci leva l’imbarazzo di festeggiare eventuali premi (migliori costumi e miglior trucco) per un prodotto tutto sommato mediocre e sbiadito. Dispiace un po’ solo per Laura Pausini che sembrava promettere la statuetta come miglior canzone originale per La Vita davanti a sé – che invece è stata assegnata a “Fight for you” dal film Judas and the Black Messiah – e che probabilmente tornerà a cantare “la solitudine” per i prossimi 10 anni nei peggiori palazzetti di Caracas.
Ma tornando ad essere seri, quello che possiamo dire sugli Oscar di quest’anno è che il cinema, innegabilmente, non abdica al suo ruolo di impulso e di specchio nemmeno quando si tinge d’oro, ma i film di quest’anno assumono sempre più i colori grigi di una riflessione sociale che altrove non riesce a trovare asilo.
Tutto ciò spinge a porci una domanda tanto più retorica quanto più pressante:
È davvero solo questo il ruolo del cinema oggi?
Siamo tanto disillusi da aver perso la capacità di sognare?
Cosentino laureando in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Amante della filosofia del diritto e di diritto costituzionale, materie che esprimono il suo bisogno di riflettere approfonditamente sulla natura e la necessità delle cose, coltiva un’insana passione per il mondo nerd e per il cibo, anche in qualità di food blogger.
Affannosamente curioso e amante del dibattito, è dotato di un animo ironico e mordace.
Appassionato di filosofia, politica e cinema!