Capita.
Ogni tanto, di notte, ancora capita.
Ogni tanto, senza che io lo cerchi, senza che a me manchi quell’immagine, quel ricordo, lui torna.
Quella luce che si piega nel buio, quella ruota che si strizza sull’asfalto come spugna tra le mani, un motore in accelerazione si strozza d’improvviso, un cavallo imbizzarrito scalcia.
Poi, il silenzio.
Come quando in una calda sera di gennaio la neve scende ad imbiancare i tetti e le strade, quel silenzio assoluto e allo stesso tempo assordante.
Un silenzio che dura un attimo eterno, in cui quella piccola porzione di vita il mondo prende improvvisamente a tacere.
Le immagini da confuse diventano solamente sfocate, i rumori della strada, le voci allarmate sono ora solo un ronzio indistinguibile in sottofondo.
Tu ci sei, ma non ci sei.
La bocca impastata di sangue, polvere e asfalto che fatica a esalare un respiro.
Un respiro che s’è fatto caldo e lento e pesante.
Ascolti, nel trambusto del mondo che ha alzato il suo volume, il tuo corpo.
Provi a muovere le gambe, “sì!”, le senti, “si, funzionano!” e allora ti lasci scivolare di nuovo nell’oblio perché sei stanco, molto stanco.
Riapri gli occhi, questa volta sono loro ad esser impiastricciati. Hai la vista sporca.
Lacrime, sangue, polvere. Ancora loro.
Ma non puoi pulirti, qualcosa impedisce alla tua mano di portarsi al viso ed in quell’istante lo senti.
Un braccio, quello destro, non risponde ai tuoi comandi.
Eppure, è strano, non senti nessun dolore ma percepisci che l’ordine impartito ai tuoi muscoli e alle tue ossa si fermi più in alto del dovuto.
E allora chiedi alla tua mano almeno di stringersi, ma lei ancora dorme del tutto.
Come quando da piccolo tua madre ti svegliava dicendo “È tardi! Farai tardi a scuola” e tu, sempre, “altri 5 minuti”.
Ecco, la mano si muove quasi impercettibilmente, ma è intorpidita, stanca, incredibilmente lenta.
Inizi finalmente a distinguere meglio le voci, ti stai sintonizzato di nuovo col mondo.
“Sta arrivando l’ambulanza… sta tranquillo, non ti muovere”.
La confusione non ti abbandona ma inizi a riacquistare lucidità, che è un po’ un ossimoro, ma tant’è.
Dentro l’ambulanza le luci ti trafiggono gli occhi come spade facendo breccia nell’intruglio che ricopre volto e occhi.
Il dolore inizia a farsi sentire.
Cercano di tenerti vigile.
Il dolore inizia a farsi sentire un po’ di più.
Lo stomaco si risveglia di soprassalto e inizia a protestare per esser strato strapazzato senza il suo consenso.
Il tuo corpo si sveglia definitivamente e il dolore inizia a impossessarsi di te.
I tuoi muscoli tornano al tuo comando, i tuoi nervi ti avvertono di aver ripreso il loro lavoro suggerendoti che “abbiamo un problema, qui qualcosa si è rotto”. Ma non lo fanno come vorresti, no.
È come se qualcuno, più di uno, molti più di uno, iniziassero ad infilzarti con delle piccole lame poco affilate, rozze.
Non c’è un muscolo, un osso, una porzione di corpo che non venga trafitta e lacerata.
Con lentezza, con macabra dolcezza, continuamente.
Ti fa male tutto. Tutto.
Eppure il dolore è estremamente utile in quegli istanti, perché porta con sé lucidità e consapevolezza di ciò che è accaduto e ciò che ti circonda.
Hai un braccio spezzato in due, lo senti chiaramente perché l’estremità in tuo controllo lacera la carne cercando di eseguire i tuoi comandi e senti il sangue che appiccica la camicia al braccio.
Sei pieno di escoriazioni e lesioni e ustioni, hai anche una ferita sul volto e, probabilmente, un bel trauma cranico.
Quel che non ti spieghi però, e un po’ ti spaventa, è come mai la tua mano destra stia ancora dormendo.
D’un tratto, quando ancora ti stanno trasportando verso l’ospedale, realizzi che a breve avvertiranno i tuoi e tu li vedrai.
Ecco, quello è il momento peggiore di tutti.
Guardare negli occhi il dolore puro, assoluto, totale.
Gli occhi di un genitore che vedono il proprio figlio disteso su una barella, col volto sporco di sangue.
Quel dolore, quell’istante non lo dimenticherai mai, mai.
Dimenticherai l’impatto, dimenticherai il dolore, dimenticherai la frustrazione, dimenticherai lo sconforto, ma quegli occhi, quelli non li dimenticherai mai.
Avevi 17 anni, ti credevi invincibile, immortale, eri convinto che certe cose potessero capitare solo agli altri.
Invece la vita ti ha dimostrato che non era così. Tu sanguini. Tu provi dolore e tu, soprattutto, puoi morire in qualsiasi momento.
Questa è la lezione più grande che la vita possa insegnarti.
Chi affronta un incidente non ha la possibilità di pensare al fatto che presto o tardi morirà. Non ha il tempo di realizzare.
Chi ha un incidente, semplicemente, potrebbe morire in quell’istante.
Un istante.
Per cambiare una vita intera o farla finire, in fondo, è sufficiente un istante.
Un battito d’ali, di ciglia, un sorriso, un bacio, uno sguardo o la svolta di un’auto.
Da quel momento in poi è una rincorsa continua, estenuante e a tratti infinita verso l’agognato recupero.
Vedrai amici e parenti svenire, piangere, sorridere, mostrarti il loro amore e li sentirai pronti a spronarti quando i giorni si faranno pesanti.
Altri li vedrai disinteressarsi e inizierai a saper valutare un affetto vero da uno opportunistico.
Ci saranno le operazioni, ci saranno le riabilitazioni, rischierai di morire sotto i ferri e poi ricomincerai.
Vivrai momenti molto intensi e imparerai quanto è vero l’adagio secondo cui la saggezza può trovarsi nei posti più inaspettati.
Ci saranno momenti duri, molto duri, quando la tua adolescenza cercherà disperatamente di non lasciarti e tu erroneamente, per un attimo, considererai l’ipotesi d’esser stato sfortunato.
Come quando avevi 6 anni e non volevi andare via da casa di tuo cugino perché stavate giocando e ti divertivi e iniziavi a piangere a dirotto e ti attaccavi ai mobili per non farti portare via.
Ecco, questo strazio, questo calvario durerà un tempo che ti sembrerà infinito e ti condurrà a un bivio fondamentale che non tutti riescono a vedere chiaramente.
E se riesci a vederlo e a fare la scelta giusta allora sei fortunato. E anche un po’ bravo.
La realtà, oggi, è che da sveglio ho imparato a ringraziare quell’istante, ad apprezzarlo.
Sono stato fortunato, molto fortunato.
Non solo posso raccontare la mia storia e posso farlo senza che quell’istante mi abbia lasciato impedimenti insormontabili – alcuni sono diventato bravo a non farli vedere, né a farmi condizionare da essi.
Perché mi ha concesso di imparare tanto e capire molto.
Imparare che la vita è un viaggio pazzesco di cui tutti dovremmo godere. Nel momento felice come nelle avversità.
Capire che tutti affrontiamo questo viaggio in maniera soggettiva, tutti abbiamo un passato che ci influenza e condiziona e tutti meritiamo di essere capiti.
Potessi tornare indietro, non eliminerei quel volo dalla mia vita: quel dolore mi è servito, ne ho fatto tesoro.
È grazie a quell’istante che sono la persona che sono, con pregi e difetti.
E credetemi, quando vedo il mare, il sorriso dei miei, un cane che scodinzola venendomi incontro, l’odore di un cornetto o di un pancake caldo, quando sento le risate dei miei amici a tavola o l’esplosione di adrenalina che si scatena in uno spogliatoio prima di una partita importante, quando incontro i suoi occhi, quegli occhi che amo da impazzire, io sono felice.
Felice per davvero.
Il dolore, infine, è davvero un maestro tanto severo quanto utile.
E anche se non voglio, ogni tanto, capita che la notte me lo ricordi.
Avvocato, classe 1987, nasce nella provincia di Cosenza e qui completa gli studi classici.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Commerciale Bocconi, svolge la pratica forense tra Cosenza e Milano e vive per un periodo negli States per un tirocinio in un prestigioso studio legale internazionale.
Opera nel settore legale in terra natìa da diversi anni.
Appassionato di scrittura, letteratura, musica, calcio e pesca sportiva