Cara Maestra, quando sarò grande voglio andare a Scuola

"Non curare la scuola è come dimenticare di annaffiare l’orto o di rifare il letto, è una forma di sciatteria depressiva, un torto che si fa al presente e un sabotaggio in piena regola del futuro."

“Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”
(Piero Calamandrei)

L’Italia odia i suoi giovani e non fa nulla per nasconderlo.
Se ne ricorda solo quando scappano lontano, per provare a lenire il rimorso scaturito dalla sua stessa decadenza morale e culturale, mentre il puzzo di ignoranza trasuda sempre più dallo Stivale.

Mi rivolgo ai miei coetanei (o anche più giovani evidentemente, vista la banalità che permea ogni discussione politica o dibattito sulla scuola): ma non ve ne rendete conto?
Avessero potuto arrestare il mondo agli anni ’90, lo avrebbero fatto senza scrupolo alcuno.

L’oasi felice del boom economico è un mero ricordo, guai a parlare di progresso tecnologico o Italia Digitale.
Tutto è fermo, immutabile, eppure inevitabilmente mutato. La competenza è qualcosa che riposa nel dato anagrafico, l’intelligenza sostituita dalla furbizia e non vi passi per la testa di studiare.
Studia solo chi vuol perdere tempo, chi è benestante, chi non si sporca le mani. Sono rimasti solo i Santi e i navigatori.
I poeti? Sono diventati pressoché inutili.

Quando il Covid ha fatto capolino nelle nostre vite, cosa si è pensato di sospendere in primo luogo? L’istruzione, ovviamente.
Universitari e scolari lasciati in balìa dell’incerto prima ancora che “lockdown” divenisse un termine d’uso comune nel nostro vocabolario.
Hanno preferito a voi persino le discoteche, vi tengono buoni all’interno del Paese dei balocchi e rimandano, rimandano l’inevitabile. Non perché vi vogliano stupidi, ma perché non sanno cosa farsene di voi.
Non facevate parte dell’equazione prima e non è previsto che ne facciate parte dopo. Le attenzioni sono concentrate sempre altrove: le pensioni, i sussidi, gli sgravi fiscali, le elezioni.

Intanto cosa abbiamo fatto Noi per cambiare lo status quo? Poco!
Ci siamo lasciati assuefare dalle loro ciance, abbiamo creduto che la vita vera fosse altrove, non certo tra i banchi. Ora, quegli stessi banchi vogliono portarli via, di nuovo, come 7 mesi fa.
Hanno puntato il dito e nel loro ponderare sono arrivati alla conclusione che voi potete rimanere a casa qualche altro mese, magari seguendo le lezioni dal computer e non è detto che tutti possiate.

È inaccettabile! Lo era già allora, lo è ancor di più oggi.
Ho compreso l’importanza della mia vita liceale, e scolastica in genere, solo dopo averla lasciata all’interno di foto sbiadite o amori dimenticati, interrogazioni e compiti in classe. E nel rimuginare su ciò che non avevo appreso e ciò che avrei voluto apprendere, ho pensato a quanti come me e più di me hanno fame, ambizione e desiderano svettare sopra la mediocrità.

Molti credono sia una tappa obbligata e nulla più, in attesa di poter realizzare le proprie inclinazioni in atenei di prestigio. E l’ho creduto anche io, almeno fino ai primi mesi da universitario.
Mi sono accorto, però, di essere disarmato, inerme, senza alcun metodo di studio o le capacità per far fronte ai tomi, agli esami, agli appelli e ai CFU.
Così, nel guardarmi indietro, nell’avvertire la paura, ho sentito forte il desiderio di provare a cambiare questo ordine di cose e iniziare a fornire il mio contributo.

“Non curare la scuola è come dimenticare di annaffiare l’orto o di rifare il letto, è una forma di sciatteria depressiva, un torto che si fa al presente e un sabotaggio in piena regola del futuro.”

Così parla Michele Serra, noto giornalista di Repubblica e L’Espresso, in un pensiero che dovrebbe rappresentare la pietra angolare del vivere civile.
Sì: perché il livello di istruzione della popolazione è uno dei massimi indicatori di benessere della società e della capacità del gruppo sociale di garantire la propria esistenza.

Attenzione, però, a non cadere nel tranello e credere che la cultura basti a sé stessa. La cultura deve essere un’ulteriore arma al servizio dell’intelligenza, cioè la capacità di elaborazione dei problemi per giungere alla soluzione dei medesimi.
Due, in tal senso, sono i momenti cruciali che uno studente deve affrontare: il passaggio dalla scuola superiore all’università e, più insidioso, dall’università – o dalla scuola – direttamente al mondo del lavoro.

Come se la cava l’Italia su questi due fronti? Male in entrambi i casi.
Uno studente liceale alle prese con i programmi universitari rimane spesso stranito dalla complessità e tecnicità degli assunti contenuti nei libri di testo; i ritmi di studio cambiano drasticamente e la mole di lavoro è indubbiamente diversa rispetto ai compiti per casa a cadenza giornaliera.

Non è un caso che le prime forme gravi di ansia e depressione inizino a manifestarsi nel periodo a cavallo tra i 20 e i 25 anni, quando il senso di inadeguatezza comincia ad attanagliare i giovani e la precarietà diviene il sentimento dominante.
Questo accade a causa di programmi scolastici rimasti purtroppo invariati per lungo tempo, non più rappresentativi delle esigenze professionalizzanti di ragazzi chiamati a barcamenarsi in un mercato del lavoro già saturo.

Solo pochi istituti, ad esempio, consentono agli alunni uno studio della Costituzione o delle leggi principali; le tematiche relative all’informatica e ai nuovi sistemi di comunicazione e informazione vengono affrontate superficialmente. Il risultato è un enorme numero di aspiranti universitari costretti a ripartire da zero con non poche difficoltà di adattamento.

Ancor più complicato è il secondo e decisivo salto, sintetizzato da un dato che definire allarmante non rende minimamente l’idea della reale portata del problema: la disoccupazione giovanile italiana (aspiranti lavoratori tra i 17 e i 25 anni) si attesta al 31,4% del totale con picchi al 56,4% in regioni come Campania e Sicilia.

Le Università cosi come gli istituti scolastici: non preparano alla vita lavorativa – se non in rari casi -, imbottendo gli studenti di nozioni squisitamente teoriche senza offrire percorsi di canalizzazione pratica di quanto appreso; le aziende, dal canto loro, sempre più frequentemente, preferiscono indirizzare le loro attenzioni su profili più esperti, piuttosto che su ragazzini imberbi.

Cambiare è possibile e per farlo bisogna andare a monte della faccenda partendo dalla durata della vita scolastica. Tredici anni tra scuola primaria e secondaria appaiono francamente troppi, col rischio di arrivare alla maggiore età privi di competenze spendibili.
Ridurre la frazione temporale fra scuola elementare e liceo o anche attribuire a quest’ultimo la funzione di istituto finalizzato all’acquisizione di soft skill utili per l’apprendimento di un mestiere potrebbero essere alcune tra le soluzioni.

I programmi devono essere ripensati in ottica contemporanea,  privilegiando temi di attualità e la comprensione di istituti basilari come contratti, responsabilità civile e penale; l’utilizzo della tecnologia deve risaltare tra tutte le materie, così da lasciare finalmente spazio alla rivoluzione digitale rispetto alla quale siamo vergognosamente in ritardo.

L’Università potrebbe tornare ad essere il cuore pulsante della ricerca e degli studi specialistici, aprendo canali di comunicazione diretta con le imprese e favorendo itinerari lavorativi, o anche solo implementando le borse di studio coniugandole a tirocini formativi retribuiti, grazie al ricollocamento delle risorse che pervengono da tasse e contribuzione.
Lo Stato avrebbe così il compito e l’obiettivo di premiare quegli imprenditori propensi ad assumere neolaureati (o anche studenti) e prevedere all’interno delle grandi strutture aziendali quote di assunzione da riservare agli under 25.

L’obiettivo principale della scuola è quello di creare uomini che sono capaci di fare cose nuove e non semplicemente ripetere quello che altre generazioni hanno fatto.”
(Jean Piaget)

Non c’è più tempo per indugiare. Presto l’età demografica sarà talmente alta da non consentire più il ricambio generazionale e a pagarne le conseguenze saremo tutti quanti, da chi attende per andare in pensione a chi spera di costruire la propria vita sul suolo natio.
È ora di mettere la Scuola (non più la Chiesa) al centro del villaggio.

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