"Cosa accade quando d'improvviso nella notte ti accorgi di aver vissuto per tutto il tempo senza aver mai scelto di farlo davvero?"

Un altro scalino e le luci calde gli offuscarono gli occhi deboli, strizzati dalle luci fluorescenti dei neon, storditi dal sudore e dalle urla di una massa amorfa, priva di destinazione. A passo incerto Angelo esce, e inspira a pieni polmoni l’umanità fredda che aveva sommerso fino a qualche minuto prima, tra un gin tonic e l’altro, sentendosi come la cannuccia nera in mezzo ai cubetti di ghiaccio. C’era un’umanità algida di sotto. Un reggimento di ragazzi e ragazze che avevano eletto il divertimento a vessillo. E in effetti si divergeva eccome laggiù. Si viveva di notte, fino al punto di poter godere del necessario distacco emotivo di cui tutti – anche lui -, aveva bisogno, per non contattare l’insignificanza sociale che percepivano alla luce del sole. Era figlio del suo tempo, e non lo avrebbe negato.

Spontaneamente, per automatismo, Angelo esce dal cortile del club a passo svelto, con una fretta inspiegabile. Si ferma. Gli era parso di vederla. Non capiva se si trattasse di lei o meno. Erano passati 7 anni dall’ultima volta che l’aveva vista. Ora era avvinghiata con le spalle al muro di un vecchio palazzo, poteva percepirne l’umidità della pelle, la lingua madida e la vita sferzata dalle mani cinte di un uomo senza volto, immerso com’era tra i suoi capelli, quelli che avrebbero fatto da sfondo al gemito dei minuti successivi. Era andata così. Finita da troppo tempo perché se ne potesse ricordare. Ma d’altronde la sua mente era fatta in questo modo: la dimenticanza era la pietra scagliata contro le insufficienze della sua vita.

Cambiò strada. Decise di camminare. Di ricordare. Sapeva solo di non aver scelto. E andava bene così.

Camminando vide un uomo dormire nell’androne di un edificio residenziale, un senzatetto accasciato sul pavimento con dinanzi un bicchiere di plastica privo di monete, bucato da sigarette ora spente dal freddo della notte. Spuntava solo un cappello sdrucito sopra una coperta arancione che proteggeva malamente la carcassa, già piegata a sufficienza dalla miseria. Si avvicinò, prese qualche spicciolo e lo lasciò cadere a debita distanza dentro il bicchiere. Pensava che sarebbe stato opportuno chiamare qualcuno, ma non lo fece. Non era il caso. Aveva abbandonato il suoi desideri di giustizia sociale il giorno in cui aveva cominciato l’università, o forse quando aveva abbandonato la sua kefiah alla fine del quarto liceo in mezzo a quel ciarpame che era diventata la sua soffitta. Non aveva smesso di chiedersi se le cose fossero giuste o sbagliate, semplicemente aveva smesso di domandarsi se lui potesse farci qualcosa. In fondo, non sarebbe cambiato niente – si diceva.

Il marciapiede era ora rischiarato da luci fredde di lampioni impilati geometricamente laddove probabilmente un tempo v’era un altrettanto geometrico filare di alberi. Angelo, meditabondo, passeggiava abbandonando le gambe l’una di seguito all’altra, proseguendo con fare inquieto mentre la città fingeva un sonno che non aveva, incalzata continuamente dal lampeggiare delle macchine e dal rumore di metallo e copertone che pareva il prolungamento del caotico viavai del traffico mattutino.

Mentre il freddo irrigidiva il suo respiro, Angelo si domandava perché si sentiva così: un po’ sporco, un po’ malinconico, un po’ inadeguato. È comune farsi certe domande di notte, pensava. Ma vi sono notti differenti dalle altre, tanto più scure quanto più epifaniche. E Angelo questo lo sapeva pure. Era tutta una vita che aveva trovato ciò che era importante laddove non aveva cercato, perché ogni volta che cercava ciò che gli serviva, si perdeva inesorabilmente. Avrebbe mai sentito veramente che quella noia putrida, quell’inappagamento perenne, lo avrebbero abbandonato?

Si era laureato in ritardo ma sufficientemente in tempo da non attirare il rimprovero sociale. Aveva un lavoro che eseguiva con modestia, sempre sul filo di chi ci crede fino a quando la sindrome dell’impostore non si impossessava di lui, rendendolo insicuro. Aveva amici, ma aveva conosciuto l’importanza della loro silenziosa disapprovazione: l’esigenza di tracciare confini. L’identità, d’altronde, si costruisce sul tradimento delle aspettative altrui. Ma anche questa consapevolezza – come tutto il resto -, Angelo, l’aveva appresa passivamente. Non aveva mai scelto di capire. Semplicemente, si era accontentato di non essere peggio di nessuno, ma nemmeno migliore degli altri. Evitava la disperazione del fallimento, e vi preferiva quella della noia strisciante di chi si illude di vivere alla giornata.

Camminava come viveva: credendo di avere una destinazione ma attendendo sempre la prossima traversa per svoltare. Ma non era un inetto. Aveva solo creduto davvero che seminare fosse più importante di raccogliere e frugava qua e là, tra un campo e l’altro, in attesa del frutto giusto.

Non si chiedeva alcunché sull’amore. Era caduto nella trappola dell’apatia del nostro tempo: stretto tra l’esigenza di provare qualcosa strisciando sul fondo pur di aver un contatto, di sentire qualcosa, e l’assoluta incapacità di andare in profondità, conoscendo fino in fondo l’altro. Ma d’altronde neanche lui voleva conoscere fino in fondo sé stesso, perché avrebbero dovuto farlo gli altri? Si evitava continuamente. Per scoprire forse quanto fosse deludente? Ma davvero – si chiedeva – agli altri importava qualcosa di quanto fosse deludente?

Nessuno è così importante per l’altro. Siamo solo delle ottime parentesi nella vita altrui, credeva. Ma lui aveva deciso di esserlo nella propria.

Qualcuno avrebbe davvero amato il suo lato peggiore?

Il peggio di sé viene sempre a galla, non necessita mica di profondità. Non è sempre così mostruoso. Delle volte è solo il frutto della banalità umana, quella di cui Angelo si sentiva pieno ad ogni passo sulla strada. Le persone sono come sono – concludeva -, aspettarsi che siano diverse è la più ambiziosa fra le delusioni possibili.

Senza accorgersene aveva già oltrepassato casa. Ritornò indietro, era sfinito. Mentre stava attraversando il ponticello in mezzo alla città, si fermò. Guardò in fondo, dove il rigagnolo scorreva disperdendosi tra i sassi mentre la luce fioca della luna attraversava il torrente tinteggiandolo con lampi di bianco lucente. Tirò un respiro profondo. Voleva estirpare in un solo colpo il senso di vuoto che circondava la sua vita media, che sentiva sempre troppo mesta e insufficiente.

Non credeva in nulla. Nè in Dio, nè in quel mito pagano inventato dalla psicanalisi che è l’autorealizzazione. Cos’è che dovrebbe realizzare sé stessi? Il guadagno? La carriera? Una famiglia? I figli? Il successo? Il potere? Cosa c’è oltre tutte queste cose che spesso contribuiscono solo a dare un nome all’insoddisfazione umana? Cosa c’è dopo la “realizzazione”?

Si sentiva così: chiuso in una routine caotica, ma vuota. Come vuoti erano i suoi tentativi di cercare attenzioni nel vano tentativo di provare qualcosa e avere la conferma che sì, valeva la pena di stargli accanto. Ma d’altronde lui voleva stare veramente accanto a qualcuno?  Voleva veramente quel lavoro? Il mondo sarebbe stato lo stesso con o senza lui? In cosa avrebbe voluto spendere veramente l’ambizione di una vita sensata?

Era stanco delle domande. Impastoiato in un ginepraio di punti interrogativi che aprivano continuamente nuove possibilità, nuove strade senza che nessuna portasse veramente da qualche parte che non fosse un altro vicolo cieco.

Si sporse. Aprì le braccia. Guardò il cielo, con gli occhi abbacinati dall’oscurità di un cielo terso e profondo. Era pronto. Questa volta voleva perdere l’equilibrio. Almeno, voleva farlo per una buona causa: colmare il vuoto di insensatezza con l’unica parola possibile. Questa volta voleva scegliere fino in fondo.

Inspirò. Era pronto.

“No”.

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