“La bellezza è la migliore lettera di raccomandazione.”
Aristotele
– Che ore sono? Fermiamoci a bere un drink, facciamo due chiacchiere.
– Sono le 17.00. Siamo in orario. Sai, oggi mi ronzava in testa il discorso sugli stereotipi di bellezza femminile nella storia. Per quanto ancora dovremo sentirne parlare? Tu come interpreti la ‘bellezza’?
– La bellezza può essere dono e condanna. Può condurre alla fama e alla salvezza, come può risucchiare nella solitudine quando il mondo non si aspetta altro che un guscio vuoto. Mi ha sempre colpita la storia di Hedy Lamarr, non so se la conosci. La sua incantevole bellezza le salvò la vita e la consacrò come diva del cinema e la sua intelligenza, soprattutto, ha cambiato la vita di tutti noi.
Pensa che nel ’33 sposò Fritz Mandl, un produttore d’armi, e ben presto si rese conto che il suo potente marito l’aveva scelta per essere poco più che un trofeo da esibire nelle cene d’affari eleganti che teneva nel loro castello.
Ma Hedy non era solo un corpo da agghindare con abiti sontuosi e gioielli sfavillanti. Durante gli anni del suo infelice matrimonio passò il tempo ad ascoltare. Ascoltava gli uomini ingegnosi, ospiti nella sua casa, colloquiare liberamente delle strategie militari e dei difetti delle armi, convinti che la bella signora Mandl non potesse comprendere tutti quei termini tecnici, ma soprattutto che non potesse comprendere il valore di quei discorsi.
Quando Hitler forzò la frontiera dell’Austria imponendo le leggi razziali, lei, di religione ebraica, capì che era giunto il momento di salvarsi prima che fosse troppo tardi e di lasciarsi alle spalle la vita insignificante a cui il marito l’aveva costretta. Arrivò in America e con un contratto della MGM divenne una star, ma sentiva che lo scintillio di Hollywood non era sufficiente per distrarla dal pensiero delle sorti degli ebrei in Europa.
O forse era solo il senso di colpa per essere riuscita a emigrare quando tanti altri non avevano potuto.
Quando non era sul set ripensava a tutte le conversazioni sulle armi nel suo salotto e iniziò a focalizzarsi sui sistemi ad onde radio per la navigazione dei siluri sott’acqua, riuscendo a escogitare un modo per impedire ai nemici di intercettare le frequenze.
Nell’aprile del ’42 brevettò la propria creazione e la propose alla Marina, che la rifiutò.
Durante l’incontro, capì che la sua invenzione veniva respinta non perché difettosa o inutile, ma perché creata da una donna. Quel rifiuto era colmo di tutti i pregiudizi dell’epoca nei confronti delle donne la cui intelligenza era sottostimata. Ancor di più era colmo del preconcetto per cui una star del cinema non potesse avere altro che un bel viso.
Oggi, ognuno di noi utilizza l’invenzione di Hedy: il sistema di salto di frequenza Lamarr è alla base dei dispositivi wireless. Il ruolo che lei ha giocato, però, è rimasto sconosciuto fino agli anni Novanta, quando ha finalmente ricevuto il giusto riconoscimento per la sua invenzione. Questa è la storia del riscatto di una donna non soltanto bellissima, ma di estrema intelligenza e intuito.
Quindi – e correggimi se sbaglio – quante altre donne ingegnose abbiamo costretto intorno a un focolare domestico? Cosa accadrebbe se smettessimo di giudicare le persone solo in base al loro aspetto?
– Guarda, c’è poco da fare… si sa, sono secoli che la società tende a considerare l’aspetto esteriore di una donna prima del suo talento. Prendi gli anni ’60. Musica, fermento sociale, ribellione. Mi viene in mente una donna che, nonostante il suo aspetto non fosse considerato bellissimo, ha rotto ogni stereotipo ed è diventata uno dei simboli di un’intera generazione. Presente Janis Joplin? La cantante blues più amata di sempre.
Infanzia tranquilla ma animo inquieto, sia chiaro. Sin da giovane si è dedicata all’arte e al canto, tuttavia al liceo e all’università ha subito pesanti discriminazioni per il suo aspetto poco piacente e per i suoi ideali antirazzisti, che poco si conciliavano con Port Arthur, città puritana e sede del Ku Klux Klan. Lei, lo capisci bene, aveva bisogno di brillare altrove, lontana da quel contesto conservatore.
“Molti studenti ricorderanno il loro passato come il periodo più bello della vita ma io troverò il mio splendore lontano da questa città soffocante”.
Cominciò a farlo a Los Angeles, per spostarsi poi a San Francisco. La sua carriera decollò quando ai Big Brother and the Holding Company, gruppo rock statunitense, servì improvvisamente una vocalist. Molto presto tutto il mondo rimase incantato, questa volta non da una donna avvenente, non da un viso da cinema, ma da una voce strabiliante, che aveva la capacità di entrare dritta nel petto, scoppiando.
Estrosa nell’abbigliamento, stropicciata nei modi, apertamente bisessuale, abbracciò l’ideale “Peace&Love” del movimento hippy, divenne un simbolo, al di là del bell’aspetto richiesto dalla società.
Per quanto, però, la società possa sforzarsi, applaudendo personalità geniali e strabilianti, anime incisive e travolgenti, alla fine offre sempre uno specchio. Il riflesso è ciò che si ha dentro. Con questo bisogna fare davvero i conti.
Lei, infatti, non superò mai i segni lasciati dalle vessazioni subite in passato. Il mondo della musica la venerò, ma lei continuò a sentirsi sola e oscurata dal bisogno di accettazione, causa primaria della sua dipendenza da sesso, alcol e droga.
Non abbandonava mai la bottiglia, nemmeno prima delle sue performance. Il bourbon segnava la gola e la voce ne usciva graffiata, le amplificava le emozioni e la sganciava dai freni inibitori per vivere l’amore col pubblico, sensuale e appassionato, su un palco che possedeva, ormai, come “Regina del blues”, dominatrice ipnotica di sensazioni esplosive. Era intensa e amava l’improvvisazione, così come improvvisava la sua vita.
“Molti artisti hanno un modo di fare arte e uno di vivere. Per me ce n’è uno solo”.
Un modo disordinato, un modo senza compromessi. Un modo che la rendeva unica. Un modo che spense la sua luce in un’overdose da eroina.
Tutti erano ancora sotto shock per la morte di uno dei suoi storici amanti, Jimi Hendrix, quando giunse, dopo appena due settimane, nel ’70, la notizia inaspettata della sua morte precoce. A dirla tutta, il mondo piangeva al ritmo di “Cry Baby”.
Pensa che Leonard Cohen, raccontando di lei in “Chelsea Hotel #2”, scrisse:
“E stringendo il pugno per quelli come noi – che sono oppressi dalle immagini della bellezza, – facendoti una dose dicesti, “Beh, non importa, – siamo orrendi ma abbiamo ancora la musica.”
In fondo, Janis, i conti li aveva fatti bene.
Comunque è tardi, i bar chiudono. Andiamo a casa.

Classe 1991, nasce e cresce a Cosenza tra aule di danza, libri e tempere. Si diploma in danza classica. Dopo il liceo intraprende gli studi alla facoltà di Economia, ma è il diritto che le fa battere il cuore! Ora è laureanda in Giurisprudenza, anche se continua a studiare finanza nelle pausa caffè. Sensibile al sociale, prende parte da sempre ad iniziative rivolte ai più deboli, in una terra che considera l’angolo più bello del pianeta.
Caparbia, curiosa, coltiva autoironia, ama viaggiare e scoprire cibi nuovi.
Incline a difendere il prossimo, crede fortemente nel rispetto, nella tolleranza e nell’integrazione.
Appassionata di politica, lettura, escursioni, cantautorato, calcio e sport.