A chi applaude, mentre io mi vergogno

"Dico che non mi interessa e sorrido quando mi dicono "non è che sei gay?""

Credo che le cravatte siano davvero un ottimo accessorio, molto più degli orecchini.
Mi piacciono tanto quelle ricamate a mano, sui toni bordeaux e grigi. Mi danno sicurezza. Mi ricordano quelle che metteva mio papà per andare al lavoro mentre io restavo a casa ad aspettarlo perché troppo piccola per andare all’asilo.

Non parlavo quasi mai.
Scrissi una lettera a Babbo Natale in pieno febbraio per chiedergli una sorellina e mia mamma mi disse che forse volevo scriverla a Gesù; io risposi, convinta, di no. Che doveva spedirla a Babbo Natale, ché lui sapeva.

Ho sempre sbagliato qualcosa, ora che ci penso.
Però, almeno, dopo 7 anni, Babbo Natale mi portò quella sorellina e io cominciai a sentirmi meno sola.

Nel mentre i miei genitori mi portavano dagli altri bambini ma non mi sentivo mai al sicuro, come se ci fosse qualcosa di cui vergognarmi.
Ma avevo solo 7 anni e nessuna bambola con cui giocare. Preferivo le carte dei Pokemon e le figurine dei calciatori.
Non facevo del male a nessuno, me ne andavo in soffitta e attaccavo le mie figurine in tutta serenità.
Quel silenzio mi ha accompagnata da sempre e io, lì, stavo bene, mentre non stavo mai bene fuori.
Faccio persino fatica, a volte, a ricordarmi episodi della mia infanzia. Come se non meritassi di avere memoria del mio “stare al mondo”.

Col tempo, mi resi conto che diventavo sempre più chi non ero, ma non lo facevo apposta. No. Era perché così non potevano pensare di me che fossi “strana”.
E dopo aver messo per una sola volta la cravatta al liceo e non aver ricevuto la giusta comprensione, ho iniziato a comprare gli orecchini. E poi la matita per truccarmi gli occhi, un po’ di blush. Non ho mai comprato un rossetto, mai.
Sarebbe stato troppo.

Lo specchio mi guardava sempre male. Il letto, invece, mi accoglieva.
I miei segreti più profondi, sussurrati in quel cuscino, per anni sono rimasti lì.
Non ho mai ben compreso cosa significhi essere me.
Ho un peso sul petto che mi schiaccia e mentirei se dicessi che non ho mai pensato di porre fine alla mia vita.

Ho preso una chitarra sgangherata e ho imparato a suonarla per la mia prima cotta, inconsapevolmente.
Ho scritto le mie prime canzoni per Mimmo, grande amore di riflesso a chi poi doveva ascoltarle quelle canzoni.
Ma non capivo, non volevo.
Mi volevo normale, speravo potesse cambiare.
Cercavo disperatamente di avere una relazione stabile perché così forse mi sarei sentita tranquilla.

La mia rabbia non mi lasciava mai, mi faceva sentire un mostro.
E più mi arrabbiavo con gli altri e più stavo male con me stessa.
Credo di volermi ancora normale, nonostante ora mi guardi allo specchio ripetendomi “tu sei normale, tu sai chi sei”.
A volte capita di ripeterlo come un mantra, mentre lavo i denti e metto su una giacca prima di andare a lavoro, “io so chi sono”.
Lo ripeto talmente tante volte che rischio di rispondere ai “buongiorno” con questa frase.

Ancora le persone non si spiegano come io non abbia un figlio, un compagno, nonostante io abbia quasi 31 anni.
Rispondo sempre in modo educato, perché è questo quello che sono.
Dico che non mi interessa e sorrido quando mi dicono “non è che sei gay?”.
Abbasso lo sguardo e continuo a lavorare, in silenzio.
E non perché io mi vergogni di me come un tempo, ma perché so che non sarei nessuno in quel posto se dovessi rivelare chi sono quando apro la porta di casa.
Se dovessi presentare la mia compagna.
Se dovessi urlare a tutti per una buona volta che io un figlio lo vorrei adottare ma non posso, perché non mi è concesso di amare.

Attraverso questi pensieri ogni giorno, ogni santo giorno.
Così come quello della paura della morte.
Perché in cuor mio so che per la società meriterei di morire.
Non passa un giorno e, vi giuro, non passa, in cui io non mi senta soffocare per tutto questo.
Apro la TV e vedo che anche lì ridono di me.
E non sono al sicuro neanche a casa mia.
Neanche mentre mi preparo la cena.
Neanche mentre faccio questi pensieri.

Perché “se Gesù ci avesse voluto così, ci avrebbe dato la possibilità di cambiare sesso da soli”, dice una mamma in TV.
Ma a me piace essere donna, solo che non mi piacciono gli uomini.

Magari avevo capito tutto quando a 7 anni ho scritto quella lettera a Babbo Natale invece che a Gesù.
Perché a Gesù danno questa brutta nomea e magari lui si vergogna anche.
E si fa chiamare Babbo Natale.

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