“Abituarsi alla rinuncia allontana le offerte” ?
Che Timpamara sia un luogo anomalo, lo si capisce subito. Quanto possa esserlo, è compito nostro scoprirlo, pagina dopo pagina, mentre veniamo guidati dall’autore in questo paesino-teatro, in cui ogni singolo abitante, con il proprio nome e la propria storia, è personaggio ignaro di uno spettacolo senza data e senza collocazione. Non sappiamo Timpamara dove sia, come raggiungerlo, eppure chi non vorrebbe vedere, almeno di sfuggita, un posto in cui tanto peso ha la biblioteca quanto il cimitero comunale?
E come Isaia Caramante il forestiero, dotato di nastri e microfoni, intento a registrare ogni genere di rumore e scricchiolio, nella speranza di cogliere un qualche segno di vita oltre la morte, così il lettore – straniero anche lui – si ritrova ad un tratto affacciato sulla vita intima e lineare di Astolfo Malinverno, che del paladino porta sì il nome, ma anche il destino di ritrovare (e curare) le cose lasciate dagli uomini.
Gli uomini lasciano amori, lasciano scritti, lasciano oggetti, a volte anche il senno. E di tutte queste cose Malinverno diventa gentile custode, come se esserlo già della biblioteca e del cimitero non fosse abbastanza. E così, mentre lui vive leggendo le storie degli altri, noi viviamo la sua, scoprendo un mondo forgiato dall’abbandono, in cui solo l’immaginazione può alleviare il peso di una gamba due centimetri più corta.
Astolfo ipotizza, fa congetture, collega tasselli, e questo suo immaginare è di una plastica concretezza. Lui si figura il mondo attraverso le avventure degli autori che legge: tutte le sue esperienze sono legate a dei libri, persino l’amore. Non l’amore vissuto, ma quello – anche qui – immaginato,
“…che non si ama per essere corrisposti ma solo per sé stessi, che l’amore eterno non è quello condiviso dei baci, degli abbracci, delle carezze, ma solo quello solitario e inviolabile degli sguardi, dei sogni, dell’immaginazione”.
Ed è proprio dopo queste premesse che il romanzo ci mostra quanto improvviso e spiazzante può essere lo scontro con la realtà e le sue storie, in grado, nel bene e nel male, di superare anche la più fervida delle immaginazioni. Questa è una fiaba sul capovolgimento delle cose: i personaggi si fanno carne e i morti, presenti più di quanto si possa percepire, spariscono. Anche i mondi creati cambiano forma e si sgretolano, e da rifugio accogliente quali erano diventano pertugio da cui allontanarsi, per non correre il rischio di arrivare impreparati a quell’attimo concreto che tutto può cambiare, perché, in fondo “..abituarsi alla rinuncia allontana le offerte” e “disperare nell’amore lo differisce”.
Attraverso una comprensione a volte serena, più spesso malinconica, di ciò che la morte ci lascia e ciò che già in vita si perde, o non si ha il coraggio di affrontare, “Malinverno” di Domenico Dara offre riflessione su quanto, della nostra esistenza, sperimentiamo nell’intimità dei nostri pensieri, in grado di plasmare e incidere su ciò che raccontiamo a noi stessi e decidiamo di lasciare agli altri, come segno d’amore e testamento ben più prezioso di qualunque altro. Quasi come se, per esserci concesso di passare oltre, bisognasse narrare – dandola in pegno – proprio una storia.