"Che cosa succede dopo la laurea? Il “Dopo” è un orizzonte sconosciuto a cui non tutte le facoltà e/o Università ci hanno preparato".

Che cosa succede quando ci laureiamo?

Dopo le nottate, gli appelli, dopo le follie per scrivere la tesi, dopo la festa, dopo le congratulazioni?

Insomma, dopo… quando tutti sono andati via e ci hanno augurato il fatidico ad maiora semper e rimaniamo soli con i nostri sogni ed le nostre aspirazioni.

Il “Dopo” è un orizzonte sconosciuto a cui non tutte le facoltà e/o Università ci hanno preparato. Ricchi delle nostre conoscenze, non abbiamo idea di come si possa impostare un Curriculum Vitae, si sostenga un colloquio, si curi la nostra immagine su appositi profili Social, si scriva una Cover Letter, e chissà se il nostro professore di Tesi ci abbia lasciato, insieme all’immancabile stretta di mano, una Reference Letter.

Mi fermo un attimo, se tu lettore, ricadi tra i pochi che, giovane neolaureato, sei stato a conoscenza di tutto questo; ritieniti fortunato e sii debitore a vita alla tua facoltà, ma sappi che la tua situazione non è la prassi, bensì un’eccezione.

Come per magia, la Laurea, che si presentava come meta, con un piccolo scivolamento di accento, si trasforma nella metà del percorso verso il mondo del lavoro.

Le Università (mi duole dirlo, ma soprattutto quelle del Sud), elargiscono una preparazione immensa, ci preparano teoricamente sulla nostra materia, ma non sempre creano ponti con il mondo lavorativo. Il dopo laurea, purtroppo, si divide in tre categorie: chi continua verso la carriera accademica, chi si iscrive ad un Master oneroso e chi, per carattere/fortuna/destino/preparazione ce la fa.

Analizziamo queste tre categorie.

La prima, i grandi Sognatori – di cui la sottoscritta è stata portabandiera – racchiude giovani masochisti disposti a lavorare gratuitamente (detto anche tirocinio gratuito), aspettare borse di studio e continuare a lavorare gratuitamente tra un rinnovo e l’altro.

Per questa categoria è stata anche prevista una disoccupazione a fine borsa di studio, intesa dai professori come un prolungamento della stessa e quindi una implicita continuazione del lavoro con il loro team che diventa, nell’effettivo, a titolo gratuito.

È una categoria particolare, dedita al lavoro, che nei laboratori costruisce speranze con idee innovative, proposte intriganti e impegno costante. La loro preda preferita è un risultato veritiero che possa dar vita a pubblicazioni interessanti e che possano portare il loro nome. Cosa che non sempre accade.

È una categoria che nidifica in Italia, ma poi emigra all’estero dove è apprezzata, pagata regolarmente e gratificata. 

Nei corridoi spesso si respira profumo di donna sebbene molti prof tendano a sottolineare che l’ambito accademico non sia propriamente un mestiere per donne perché, prima o poi, dovranno lasciare per prendersi cura dei figli.

Imperterrite, questi esseri testardi, perseverano nei propri obiettivi, alcune riescono, altre restano nelle retrofila del team: spesso i nomi dei professori sono maschili, ma la “manodopera” di cui si forgiano si declina al femminile. 

Alla seconda categoria appartengono i Concreti, quelli che, nonostante abbiano già pagato esorbitanti tasse allo Stato, si caricano di un’ulteriore spesa per Master aziendali che garantiscono uno stage e quindi un accesso in Azienda preferenziale.

È li che imparano l’alfabeto delle imprese, le “mosse” dei colloqui, i trucchi per un buon CV (che varia a seconda dell’application), il linguaggio burocratico. Il Master, quindi, diventa il vero ponte tra mondo accademico e lavorativo.

Eppure, in questo approccio, vedo una sorta di privilegio: poter pagare un master, e quindi frequentare uno stage che mi rende il primo candidato ideale, significa comprare il lavoro a discapito di chi il master non può permetterselo?

Della visione organica e concreta del Master aziendale, l’Università potrebbe far tesoro e inserire maggiori contatti aziendali, la possibilità di svolgere tesi in aziende e incontri con le Risorse umane durante l’ultimo anno, così da forgiare i nuovi lavoratori del domani e dare maggiore consistenza alla Laurea. 

La terza categoria è quella dei Giusti, non perché abbiano meriti particolari, ma perché rappresentano, seppur in piccola parte, come dovrebbe funzionare il mondo.

Credo nella meritocrazia, ma sono anche convinta che il fattore C faccia la sua parte. Sono i ragazzi più estroversi, quelli che ai colloqui hanno saputo vendere il loro sapere, in un modoche ha particolarmente colpito l’HR.

Chapeau a chi ce l’ha fatta, ma un “Never Give up” a chi manda millemila CV e non riceve mai una risposta, a chi viene escluso perché ha fallito un gioco di ruolo, o un assessment, o un face to face conoscitivo.

Non siamo l’esito del colloquio.

Perché il rischio è questo: all’ennesimo no, credersi un fallimento.
E andare a sfogliare gli appunti e rispolverare quei libri, ricordando con quanta passione abbiamo affrontato la vita universitaria.

Ma per quale scopo?
Il concorso truccato, la leggendaria data del concorso che non viene mai comunicata, le leggi che cambiano al variare delle stagioni, il candidato ammanigliato, il colloquio motivazionale dove la risposta più sincera sarebbe “Ho studiato tanto per questo posto di lavoro perché da piccolo sognavo di lavorare qui”, il McDonalds che è diventato un contrattificio. 

Se poi ci assumono, siamo riverenti perché siamo tra i “fortunati” che sono stati scelti e ci facciamo andare bene tutto, perché ci pagano (a volte una miseria), perché stiamo facendo esperienza, perché la gavetta la devono fare tutti.

La paura di essere mandati via e la consapevolezza che non siamo soli ad essere disperati, ci presenta il lavoro non come un diritto, ma come un regalo prezioso anche negli ambienti meno sereni dove, in silenzio, accettiamo di lavorare.

È un compromesso, e all’inizio è comprensibile, ma non possiamo svenderci o dare agli altri la possibilità di sminuirci.

Forti della nostra esperienza, abbiamo il coraggio di alzare la testa, e di crederci ancora, e di affrontare nuovamente l’HR con fervido tremore e timore: è in quel momento che ci rendiamo conto che il lavoro è un’opportunità e scegliamo la strada della felicità.

Scegliamo il nostro lavoro, allontaniamoci dagli ambienti tossici, che non ci fanno crescere e che non ci apprezzano. Non sempre il detto della strada vecchia è veritiero, il nuovo può riservarci sorprese meravigliose.

Il posto di lavoro può essere un ambiente sereno, dove si accetta l’errore e si collabora per risolverlo, dove il capo è sorridente, comprensivo, preparato e ti accoglie con un sorriso presentandovi la famiglia che ha in foto sulla sua scrivania. Perché può esistere una vita oltre l’orario lavorativo, e non è peccato, e lei (sì, in questo caso mi piace sottolinearlo, che è una donna) lo sa!

E quindi, facciamo un re-Wind, cosa c’è dopo la Laurea? Il dopo la laurea è tutto quello che c’era prima, siamo noi, solo noi.
E se sembra che non possiamo essere artefici del nostro destino, è solo perché abbiamo incontrato le persone sbagliate.

Spero che i giovani possano usufruire di un sistema universitario migliore del mio e incontrare professori come Gaetano Ragno, docente Unical, o Stefano Alcaro, docente Unicz, che hanno sempre avuto una mentalità concreta e proiettata al dopo. 

Denunciate le situazioni scomode, cercate il lavoro della vostra vita (anche all’estero), fate lavorare le consulte Accademiche, siate social anche su LinkedIn, aggiornatevi, partecipate ai JobDay fin da studenti.

Fate rete tra università, create voi le situazioni che non vi offrono, ma cercate anche docenti con mentalità aperte e collaborate con loro, proponete voi. E se qualche volta vi rinfacceranno che “loro vi pagano”, ricordate che voi offrite la vostra testa pensante.

E se avete bisogno, cercatemi, io so quello che state vivendo.

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